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Un duro dal cuore grande

Sinisa Mihajlovic perde l’ultima partita, la più difficile, e ci lascia a soli 53 anni. Aveva conosciuto la guerra, vissuto a muso duro in campo e fuori, ma sapeva essere dolce. «Rivivrei tutto - aveva scritto -, anche gli errori e i dolori. Perché non esistono vite perfette e sarebbero pure noiose»

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Era un duro, Sinisa, ma aveva un cuore grande così. Gli occhi truci eppure – oppure – buoni. Se n’è andato a 53 anni dopo mille partite: l’ultima, la più subdola, l’ha persa senza smettere però un minuto di lottare. «Pur di vivere avrebbe affrontato qualsiasi dolore e sofferenza – ha raccontato la dottoressa Bonifazi, direttrice del programma Terapie Cellulari Avanzate del Sant’Orsola di Bologna che lo ha seguito -. Non voleva lasciare la famiglia che era il suo ossigeno, più del calcio che era il suo mondo. Ma il suo male era tra i più cattivi e resistenti che abbia mai visto». Un problema banale, un’infiammazione, attribuita agli allenamenti con il Bologna o al padel, s’è rivelato spia d’una forma leucemica assai aggressiva. Ha voluto dirlo lui, pubblicamente, s’è affidato ai medici, ha sperato e combattuto, è tornato in panchina, poi la ricaduta, il peggioramento, gli ultimi giorni in una clinica di Roma con la consapevolezza che non ci sarebbero state più buone notizie.
Aveva conosciuto la guerra, Sinisa Mihajlovic, e non nascondeva le ferite che aveva dentro. Ricordava, lui figlio d’un serbo e di una croata, l’odio improvviso scoppiato in Jugoslavia tra gente che viveva accanto, amici e perfino familiari. Uno zio voleva uccidere il papà. Lui giocava a pallone e sperava che gli allenamenti durassero 24 ore per non pensare ad altro, ha perso persone care e respirato distruzione e dolore, ha pianto quando è tornata la pace, ha rivisto i bombardamenti e le macerie in sonni agitati e ricordi cattivi. In Italia ha indossato tante maglie poi s’era seduto su tante panchine, ovunque lasciando un’impronta forte: strategia e tattica, energia e grinta, il coraggio di anticipare il futuro: al Milan lanciò il 16enne Donnarumma come tanti anni prima, alla Roma, aveva convinto Boskov, il suo maestro, a convocare e fare entrare un ragazzino che faceva cose bellissime con il pallone, Francesco Totti. Tirava punizioni potenti e precise, non risparmiava una goccia di grinta, poi da tecnico urlava a bordo campo, perdonava gli errori ma mai il poco impegno. Sognava una vecchiaia serena e semplice, capotavola con la barba bianca e tutta la famiglia riunita, ma il destino ha voluto diversamente: un’infezione ingigantita dal sistema immunitario minato, la consapevolezza dell’addio nello sguardo e nell’abbraccio debole alla famiglia e agli amici più stretti, tra cui il ct azzurro Mancini. «Sono sempre stato un uomo difficile, divisivo, che si esaltava nello scontro – ha scritto nella sua biografia -, ho avuto un carattere forte che per molti è sinonimo di caratteraccio, forse perché non mi sono mai nascosto prendendo delle posizioni scomode e sconvenienti. Ho sentito su di me mille giudizi, spesso superficiali: non ero il guerrafondaio e non sono l’eroe. Di certo non ho mai recitato, ho vissuto sempre a muso duro, però anche uno con gli attributi può commuoversi e avere momenti di fragilità. Chi mi conosce sa che so esser dolce e affettuoso ma è meglio non farmi incazzare. Rivivrei e rifarei tutto. Anche gli sbagli, anche i dolori. Perché non esistono vite perfette e sarebbero pure noiose».

BaNNER
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