Il bianco e il nero, il giorno e la notte, la luce e il buio. Poi chi è l’uno e chi l’altro non si sa. E forse non lo sanno nemmeno loro, entrambi beatamente fluttuanti tra le estremità di una vita in corsa. Sempre in sella a un cavallo di razza, attraversano il mainstream e i luoghi comuni, li calpestano, maltrattano, sbeffeggiano. Antonio Rezza e Flavia Mastrella sono due duri e puri, provocatori tra i provocatori, con un senso del paradosso spinto oltre i paletti di chi ascolta. Lui irruente, assoluto, lei più mite e interlocutoria. Entrambi gentili. Entrambi autori cinquanta cinquanta: performer uno, artista visiva l’altra. Un sodalizio che dura da ben sette lustri e che ha prodotto, tra l’altro, quattordici opere teatrali, che hanno visto in scena lo stesso Rezza, solo o accompagnato da altri performer. Spettacoli dissacranti e divertenti, in cui si ride a crepapelle. Ho avuto più volte occasione di scriverlo, il loro pubblico è fidelizzato. Vede e rivede lo stesso spettacolo, non si perde una prima, li segue e insegue, ride in anticipo sulla battuta perché già la conosce e se l’aspetta, non vede l’ora che arrivi. Come quando si assiste per l’ennesima volta a una barzelletta che ci ha fatto ridere. Ridere: eppure c’è poco da ridere. Partiamo dall’ultimo spettacolo, firmato in coppia, “Hybris”, in cui Antonio mi dice «deve sentire anche Flavia perché abbiamo idee diverse».
D’accordo ma cominciamo dalla sua. Le porte che si aprono e chiudono senza interruzione, distinguendo in modo netto chi può stare dentro e chi no.
«Ho fatto quello che ha fatto lo Stato. “Hybris” è una prova tecnica di sottomissione. Uno spettacolo provato per quattro anni in cui abbiamo previsto in modo involontario quello che poi sarebbe successo. Ogni Stato dovrebbe vergognarsi di quello che ha fatto in questi due anni. E non va dimenticato».
Allude al lockdown?
«Sì. Quello che ha fatto lo Stato è mostruoso. Obbligarti a vaccinarti, per esempio. Io non sono vaccinato e non perché sia un no vax – non ho le competenze per esserlo – ma perché il corpo è mio e se mi vaccino lo decido io e non lo Stato».
Però le precauzioni sono state necessarie.
«Giro sempre con la mascherina perché ho paura di ammalarmi».
Di cos’altro ha paura?
«Del dolore fisico. L’unica cosa da cui difendersi. Il dolore riguarda anche il pensiero».
Nel film “Il Cristo in gola”, presentato a Torino alla mostra del cinema, c’è una battuta di Ponzio Pilato che suona così: «credo di più alla disperazione che al dolore».
«Quello è un esercizio letterario perché gli era passata l’emicrania. Io credo al dolore più che alla disperazione, che è un atteggiamento mentale».
Ponzio Pilato argomenta che il potere «ha le mani di merda» e non si «lava le mani». Qual è il suo rapporto con il potere?
«Non credo nel potere e nella gestione del potere e l’unico mio credo è la violazione di ogni forma di istituzione. Poi se dovessi credere a qualcosa, allora meglio Dio che almeno è più potente».
Ma lei in Dio non crede.
«Quello di Dio è un pensiero primitivo».
Glissiamo. Da cosa è nata l’idea di questo film?
«Non è nata: è sempre stata lì. Io da un punto di vista performativo ho sempre voluto muovermi sullo stesso terreno di un collega».
Sarebbe Cristo il collega?
«Certo. Si tratta di un film involontario che deriva da una mia paranoia, quella di sottrarmi alla paternità. Sono assalito da sciagure e non volevo un minore che potesse assorbire le mie immagini catastrofiche. È un film su una parte della mia vita più che sulla vita di Cristo».
La scena in cui viene crocifisso un neonato potrebbe suscitare disturbo.
«Non è fatta per disturbare. Io a quella scena non vedevo alternativa e non potevo perdere l’occasione. Il figlio è il mio e lo Stato è molto più violento di me».
Nelle note di regia scrive: «il film è filologico fin quando lo dirigo, ma quando mi dirigo mi scappa dalle mani perché io, oltre a quella di Dio, non riconosco neppure la parola mia».
«Avevo scritto molte cose da mettere in bocca al figlio di Dio. Ma nel momento in cui il corpo si è staccato dal volere dell’autore per interpretare il sapere della carne, mi sono liberato dello stupido significato che il pensiero accattone voleva imporre al costato. Allora ho iniziato a strillare e l’autore ha chinato il capo».
Sta dicendo che si è generato un conflitto tra l’autore e l’attore?
«No, io non sono un attore e non so come si faccia a passare la vita a sentire lo stato d’animo altrui, oggi c’è la sindrome di Alighiero Noschese. Ma l’attore lo si fa soltanto per denaro. L’attore ha un cattivo rapporto con il denaro».
Non le interessano i soldi?
«Solo per essere libero e indipendente».
Chi è libero?
«Chi non scende a compromessi. Chiunque rinunci al compromesso è superiore a chi detiene il potere».
Non salva proprio nessuno nel panorama teatrale e cinematografico?
«Gian Maria Volonté perché faceva l’attore in modo performativo. Oggi mi piacciono Alessandro Bergonzoni e Franco Maresco. Li vado a vedere e rivedere perché sono menti non asservite».
Il potere tanto vituperato vi ha premiati con il Leone d’Oro alla carriera.
«Grande godimento. Il riconoscimento delle istituzioni verso la superiorità degli artisti».
Perché Flavia non ha partecipato al film?
«Perché lo considera pubblicità occulta alla religione. Ma lo chieda a lei».
E dunque, Flavia?
«Ogni forma di narrazione nei confronti di una realtà consolidata non fa che rafforzare il senso del divino e del mistico. Io detesto il senso del mistico presente nel cattolicesimo perché è monoteistico. Il cattolicesimo mortifica la natura. Io credo nella natura, nell’anima nella natura».
Per questo nel suo recente film, “La legge”, una sorta di opera sulla nostra Costituzione, sono presenti gli animali?
«L’idea che gli animali rispecchino la nostra parte più intima mi ha indotta a chiedere a ogni persona chiamata a recitare un articolo della Costituzione, la presenza di un animale. Mi sono di nuovo imbattuta in quel libro durante il lockdown e mi sono resa conto di quanto la Costituzione sia stata calpestata. I partecipanti hanno registrato in video-lettura attraverso il cellulare, dimostrando che il telefono, da arma individualistica, può diventare creativa. Come ogni mezzo di espressione».
Per esempio le porte di “Hybris”.
«Ecco sì, per me l’idea delle porte è nata da una sensazione di solitudine intellettuale, di vuoto culturale. In “Hybris” le porte sono la metafora di qualcosa che ha perso la sua funzione originaria, però l’essere umano continua a usarle secondo quella funzione. Perché, anche se una cosa è superata, prima che diventi movimento culturale e sociale passa del tempo».
Tra le sue scenografie più identitarie ci sono i teli bucati.
«Sono quadri con la funzione di costumi e paesaggio, che coprivano un’ampiezza da due a dieci metri. Scene ispirate dal mio amore per Fontana e Burri ma nate da un’esigenza pratica perché dovevano stare in valigia ed essere trasportabili su una Renault 4».
A cura di Alessandra Bernocco