Vialli di lacrime

La scomparsa dell’ex campione commuove, la sua eredità spirituale arricchisce: ha insegnato coraggio e generosità senza la retorica del guerriero

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La consapevolezza d’un destino scritto non attenua il dolore, ché alla morte non s’è mai preparati, così la perdita di Gianluca Vialli ci lascia attoniti, soli e smarriti in una nuvola di tristezza. Aveva cinquantotto anni e da cinque combatteva un male cattivo, conviveva con “un ospite indesiderato” venuto dal nulla a stravolgere una vita felice, attraversata di corsa dietro un pallone. La retina imprigiona figurine d’album e istantanee di gioco, i riccioli di Cremona, il biondo scudetto di Genova, il cranio lucido di Torino e Londra, la barba grigia di Wembley nella notte del trionfo azzurro. Rovesciate, esultanze, la Coppa delle Coppe alla Samp e la Champions a Torino, i sorrisi guasconi e gli sguardi furbi: era un compagnone, Gianluca, aveva il gusto della battuta e dello scherzo, ed è bello oggi ricordarlo solare e ilare, animatore nello spogliatoio come trascinatore in campo.

Ha sorriso anche l’ultima volta che ha visto Roberto Mancini, compagno di squadra e fratello, sapendo che non sarebbe più successo, e con Massimo Mauro, assieme al quale aveva creato una fondazione benefica attivissima – ad Alba una delle ultime iniziative – aveva ironizzato sui muscoli indeboliti. Era smagrito, un segno del male. E il viso scavato si sovrappone alle immagini del campione.

All’inizio aveva nascosto la perdita di peso indossando un maglione sotto i vestiti ed era anche un modo per proteggere gli altri, non coinvolgerli nelle sofferenze, nei pensieri bui, nelle paure. Molti sapevano, però, e a loro volta evitavano di inchiodarlo a quei pensieri, poi ha raccontato, ha convissuto alla luce del sole con l’ospite, è diventato un esempio di serenità nel dolore, di delicatezza nell’affacciarsi su un futuro diventato breve, di generosità anteponendo gli altri a se stesso. Aveva espresso due desideri, sopravvivere ai genitori anziani e portare all’altare le figlie, non ha avuto il tempo ma i soli desideri raccontano la nobiltà di un uomo che davanti al tramonto della vita, si preoccupava dei suoi affetti più cari: risparmiare a papà e mamma la lacerazione del salutarlo per sempre e non lasciare sole, in un giorno speciale, le sue bambine, ché agli occhi paterni si resta sempre tali. A lui restavano il coraggio, le cure, le domande sul dopo: «Ho paura di morire. Non so quando si spegnerà la luce, cosa ci sarà dall’altra parte, ma in un certo senso sono eccitato dal poterlo scoprire». Adesso lo sa. E sa quant’era amato.

Lo hanno ricordato i tifosi delle sue squadre, delle avversarie, i compagni di viaggio di un’esistenza consacrata al calcio – attaccante, allenatore, opinionista – e mai scontata: preferì la Sampdoria ai grandi club fidandosi delle ambizioni visionarie di Mantovani, scelse il Chelsea quando la Premier non era ancora il campionato top, contribuì con l’esperienza inglese a lanciare Sky in Italia, da capodelegazione azzurro è stato confidente, motivatore, valore aggiunto. E quell’abbraccio con Mancini dopo il trionfo europeo a Wembley, nello stadio dove insieme ai tempi della Samp avevano perso una finale di Champions con il Barcellona, è stata la chiusura di un cerchio: sapevamo, già allora, che Gianluca non sarebbe invecchiato, ed è come se, con il ct fratello, l’avessimo abbracciato tutti.