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Una vita per la verità

Pietro Orlandi non ha mai smesso di sperare nella soluzione del mistero legato alla scomparsa della sorella Emanuela. E ora che il Vaticano riapre il caso accarezza, dopo 40 anni, la speranza di sapere cosa accadde

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I capelli neri dei primi sit in, delle prime interviste e dei primi appelli, sono diventati bianchi come neve. Immutati i toni, pacati e accorati, intatta la speranza nonostante la stanchezza accumulata in lunghi anni di misteri, silenzi e depistaggi. Pietro Orlandi non ha mai smesso di cercare la verità sulla sorella Emanuela, uscita di casa per andare a lezione di musica il 22 giugno 1983 e mai tornata. Aveva quindici anni, ne avrebbe appena compiuti 55. Ne ha, compiuti anzi, perché non esiste prova della morte né dichiarazione di morte presunta: «Finché non avrò certezze contrarie, ho il dovere di cercarla viva: Emanuela è iscritta all’anagrafe vaticana come vivente».
Emanuela fu inghiottita dal nulla nella Città del Papa, dove risiedeva con la famiglia, e la sua scomparsa è diventata un grande giallo, popolato da figure misteriose e legato a intrighi più grandi ancora, coinvolgendo nel tempo, tra frammenti d’indagine e confidenze, ricostruzioni e smentite, Ali Agca che sparò a Papa Wojtyla e il Kgb, la Chiesa stessa e la Banda della Magliana. La vita degli Orlandi cambiò per sempre e Pietro, fratello maggiore di Manuela, ultimo a vederla, è diventato interprete di una ricerca strenua della verità: anche questo 14 gennaio, giorno del compleanno di Emanuela, era a Castel Sant’Angelo, simbolo di tenacia, ribellione all’oblio e sete di giustizia: «Spero che la mia insistenza stimoli chi accetta passivamente l’ingiustizia: è quello che ci vogliono portare a pensare dicendo frasi come “eh, ormai….”. No, nessuno deve mai rassegnarsi a subire». C’è una novità importante, una speranza nuova in questo nuovo compleanno vissuto ancora tra preghiere e veglie e denunce, senza torte, candeline e sorrisi: il Vaticano ha appena riaperto il caso, restituendo speranza e fiducia: «Non c’è bisogno di un’indagine lunga – il commento amaro -. La verità la conoscono, basta raccontarla».
Pietro ha dedicato larga parte della vita a cercarla, ha nutrito la memoria e chiesto sostegno alla gente, ha racchiuso il suo scopo nel sottotitolo di un libro: «Mia sorella Emanuela. Sequestro Orlandi: voglio tutta la verità». Ha concesso interviste e fatto domande, ha implorato e atteso, adesso vede una luce in fondo al tunnel che ha attraversato tre papati aggrovigliandosi nel mistero e nell’intrigo, perfino adesso perché un messaggio inviato a un giornalista specializzato sul caso sottende un collegamento con la morte di Ratzinger e legge nell’inchiesta riaperta una resa dei conti nella Chiesa. Indiscrezioni, ombre, tinte gialle. Forse ennesimo gorgo inutile, forse preludio alla soluzione del caso. Alla pace per Emanuela, per la famiglia e per Pietro che s’è fatto portavoce, mai distratto benché nel frattempo costruisse una famiglia tutta sua. «La scomparsa di Emanuela – ha confessato – mi ha portato a essere apprensivo verso i figli, anche se oggi i cellulari aiutano il controllo. Ho cercato di non farglielo pesare, ma soprattutto con le femmine, quand’erano più piccole, ho provato patema d’animo a ogni loro uscita. In particolare, se mi chiedono di accompagnarle da qualche parte e io non posso, resto in ansia finché non so che tutto è andato». Ogni giorno ricorda d’aver detto no a Emanuela che uscì da sola e non tornò più. E ogni giorno si chiede cosa sarebbe cambiato.