Home Articoli Rivista Idea «Vi racconto perché la cucina di langa ha stregato l’Onu»

«Vi racconto perché la cucina di langa ha stregato l’Onu»

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Il potere dell’alta cucina è grandissimo. E va ben ol­tre il piacere dei sensi. L’ennesima conferma ar­riva da New York, dove nei giorni scorsi giornali e personalità di primo piano hanno spe­so parole d’oro per le eccellenze enogastronomiche delle Lan­­ghe e del Piemonte. A raccontarle, durante la spedizione organizzata dalla Re­gio­ne per ricevere il testimone delle Uni­versiadi 2025, sono state le portate di Massimo Camia, chef stellato che guida l’omonimo ristorante di La Morra assieme alla moglie Luciana e con l’aiuto dei figli Elisabetta, in cucina al fianco di Mas­simo, e Iacopo, sommelier, in sala con la mamma.

Camia, nel viaggio a stelle e strisce ha cucinato anche nel Palazzo di vetro delle Nazioni Unite. Cosa ha provato?
«Di esperienze, anche all’estero, ne ho fatte parecchie. Ma l’Onu è sempre l’Onu. E cucinare in quel contesto fa un certo effetto. Specie pensando al fatto che con me c’era mia figlia Elisabetta: per una ragazza di 22 anni che vuole lavorare in questo settore è stato un momento straordinario».

Ci racconti i preparativi.
«Quando ti trovi a lavorare fuori dalla tua cucina le incognite sono sempre tante, a partire dalla struttura e dall’attrezzatura della cucina stessa fino alle materie prime».

Ci sono stati problemi?
«A New York si trova anche l’acqua nel deserto e, quindi, era­vamo rifornitissimi. Ma le loro materie prime sono co­munque differenti dalle no­stre. Non sto parlando di qualità, ma delle caratteristiche».

E così?
«Abbiamo fatto diverse prove per conoscere meglio i prodotti e adattare al meglio le nostre portate. Per fortuna, abbiamo incontrato persone di­sponibili e collaborative che ci hanno permesso di lavorare bene».

Cosa avete cucinato?
«Un menù “quattro stagioni”, dai forti sapori piemontesi e langaroli: uovo in camicia con asparagi, nocciole e fonduta di taleggio, piccoli “plin” ripieni di caprino fresco con acqua di pomodoro e olive taggiasche, quaglia con crema di patate e castagne e, per concludere, tortino morbido di nocciole con zabaione».

Com’è andata?
«Ci è stata tributata un’ovazione. È stato molto emozionante».

Come sono percepite le Lan­ghe negli Usa?
«Ne parlano – delle Langhe ma un po’ di tutto il Piemonte – come di una meta turistica eccezionale. Questo perché abbiamo un territorio bellissimo, sia­mo in una posizione strategica ed esprimiamo un’e­no­gastronomia d’eccellenza».

Perché piace così tanto la nostra cucina?
«La chiave sta nella qualità dei nostri piatti e nelle storie che li accompagnano».

A proposito di storie, quando lei ha iniziato la sua, da chef, immaginava di raggiungere traguardi così prestigiosi?
«Io sono nato nel cortile dietro la cucina di Felicin, a Mon­forte. E ho sempre coltivato il sogno di farmi strada in questo ambito, non per arricchirmi – altrimenti avrei scelto un altro lavoro -, ma per lasciare un ri­cordo di me nelle Langhe, per restituire qualcosa a un territorio che mi ha sempre da­to tanto».

E c’è riuscito. Cos’ha fatto la differenza?
«Credo la passione e la capacità di adattarmi velocemente alle varie situazioni. Sa, una volta non c’era la tecnologia che aiutava e allora si faceva tutto a mano, con le proprie for­ze e con il proprio ingegno. Capita­va quindi di sbagliare, ma così si imparava».

Poi è stato tutto in discesa?
«Assolutamente no. Penso, ad esempio, agli anni in cui cercavamo con una certa caparbietà la stella Michelin che purtroppo non arrivava: è stato un periodo piuttosto pesante».

Ma nel 2001 è arrivata.
«E ogni delusione è stata spazzata via!».

È il momento della seconda?
«No, va bene così. Ne sa­rem­mo decisamente ono­rati, ma sarebbe difficile “gestirla” dal punto di vista economico e de­gli investimenti».

I suoi figli lavorano con lei e sua moglie. Una scelta per loro obbligata?
«Assolutamente no. Ho sempre detto loro di fare altro, perché questo è un lavoro che pur regalando soddisfazioni incredibili richiede grandi sacrifici. Ma i figli fanno sempre il contrario di quello che dicono i genitori…».

Ora come li aiuta?

«A loro, così come ai nostri collaboratori, dico sempre di non dar mai nulla per scontato e di cercare di andare sempre oltre all’ordinario. Tutto ciò dedicando la massima attenzione a ogni dettaglio per­ché non dobbiamo mai dimenticare che il cliente che ci sceglie paga un conto im­portante e, di conseguenza, si aspetta un risultato altrettanto importante. E poi bisogna imparare a trasmettere cosa c’è dietro ai nostri piatti».

Ovvero passione e…

«Passione e territorio. In ogni nostro piatto, ci sono materie prime di alta qualità e tantissime connessioni con le nostre colline e la loro cultura».

Qual è il suo piatto preferito?

«Il risotto, è quello che mi piace di più e – da quello che mi dicono – è quello che mi riesce meglio!».

Parla con saggezza.
«Ormai, dopo 47 anni in cucina, mi sento più un allenatore che uno chef».

È fiducioso per il futuro?

«Bisogna sempre essere fiduciosi, anche quando il contesto può far pensare il contrario. Questo perché dopo il temporale spunta sempre il sereno. L’importante è saper tenere duro, avere coraggio e pure un po’ di sfrontatezza».

Da presidente dell’Associa­zio­ne Albergatori e Risto­ra­tori Albesi cosa pensa del no­stro territorio?
«Qui il Signore è sceso e ci ha benedetti: dobbiamo sempre tenerlo a mente e agire di conseguenza. Per continuare a crescere».