Appena nominata dal sindaco Carlo Bo, la nuova garante comunale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale di Alba è Paola Ferlauto. In questi giorni ha avviato i primi colloqui con i detenuti.
Dottoressa, può spiegarci qual è il compito di un garante?
«È un compito istituzionale. Nel mio caso sono stata nominata dal Comune, ma c’è enorme collaborazione con le figure del garante regionale e nazionale. Il garante comunale agisce sul territorio, incontra detenuti più di quanto possa fare un regionale che segue tutte le carceri. Dal punto di vista normativo, il garante è quella persona che rileva se ci sono criticità o diritti lesi, di qualsiasi natura. È una figura che fa da tramite con l’esterno».
Accoglie le segnalazioni dei detenuti? Di quale genere?
«Di ogni tipo. Spesso il detenuto vive in una cella due metri per tre in cui ogni problema risulta amplificato, e magari la condivide con un compagno che sconta una pena più lunga. Teniamo conto poi che spesso la scolarità è ridotta. Per il detenuto sapere che all’esterno c’è il garante che non è nemico, è qualcuno a cui esporre le problematiche, è una prospettiva importante».
Che cosa ha capito svolgendo questo incarico?
«Che quella dimensione va compresa. Ricordo un detenuto che era uscito in permesso dopo una lunghissima pena, mi colpì il fatto che non riuscisse a camminare in strada, il marciapiede per lui era troppo grande. Noi andiamo di corsa e diamo tutto per scontato, ma questa persona procedeva a tentoni contro i muri. Del resto, era entrato in carcere che si usavano le macchine da scrivere e ne era uscito trovando i computer».
Qual è oggi la condizione di chi vive in carcere?
«Sono stata infermiera per 12 anni al carcere di Alba, quando fu chiuso passai in ospedale prima di fare domanda come garante. Per un recluso anche un prelievo del sangue è difficile. Noi telefoniamo al medico di famiglia per farci prescrivere un emocromo, lì devi rivolgerti al medico ma magari non lo trovi subito, la richiesta poi deve essere autorizzata dal magistrato – a parte le urgenze, ovvio – e il percorso è articolato. Per dire le difficoltà. La cosa positiva è che molti detenuti, “grazie” proprio alla permanenza in carcere, hanno imparato a leggere e scrivere. Negli istituti di pena la scolarità è fattibile. Ricordo che ad Asti due anni fa si sono diplomati dodici detenuti. Uscire con un po’ di cultura in più è importante. Negli istituti si cerca quindi di dare spazio all’area cultura e si praticano corsi. Ad Alba era rinomato quello sulla coltivazione della vite».
Com’è la situazione all’interno del “Giuseppe Montalto”?
«Ho avviato i colloqui in questi giorni. Qui ci sono gli internati: hanno scontato la pena ma vista la pericolosità sociale, il giudice ha aggiunto un periodo di detenzione in più. Ad Alba ce ne sono circa 40, non tantissimi ma comunque da seguire, puntando sulla rieducazione e sulla possibilità di imparare un mestiere. La presenza di detenuti con diverse problematiche psichiatriche e personali richiede che gli agenti di polizia giudiziaria siano maggiormente formati. Primo, perché la formazione in tutti i campi è importante, poi perché nessuno nasce tuttologo: la questione della comunicazione con un detenuto che presenta problematiche è complessa».
Cosa ha imparato dalla sua esperienza come garante ad Asti?
«Che la cosa più importante, per svolgere questa attività, è essere formati. Lo dico da professionista del settore e mi rendo conto che se non si è all’altezza del compito si deve fare un passo indietro, per onestà intellettuale».
È un problema diffuso?
«A volte si pensa: vorrei diventare garante. Poi, lavorando, scopri che è difficile. In carcere, anche per un’infermiera, non è come lavorare fuori: serve una certa predisposizione. Io mi sono laureata in Infermieristica nel 2004, specializzata in criminologia e sono laureanda in Psicologia clinica. Mi sento formata, ci ho lavorato, quindi voglio dare il mio contributo. Farlo dall’esterno mi rende maggiormente libera di affrontare ogni questione. Mi gratifica l’idea di poter dare un contributo in questo contesto carcerario a volte complesso».
Qual è la principale urgenza nelle carceri?
«Ora è il lavoro. Ma c’è una doppia carenza di personale nell’area trattamentale e nella polizia penitenziaria. Se mancano queste due figure, i progetti lavorativi saltano. Se io domani organizzassi corsi scolastici o professionali, se insegnassi ai detenuti come diventare pizzaioli o panificatori, avendo ottenuto un finanziamento, e venissero a mancare gli agenti che devono coordinare e sorvegliare, dovrei rinunciare a tutto. Questa carenza riguarda un po’ tutti gli istituti penitenziari. Spero che i concorsi diventino più fluidi. Perché ci sono tante persone volenterose, che vengono gratuitamente a insegnare mestieri e se una persona impara a fare le pizze, può venderle anche fuori e una volta uscito potrà esercitare quel mestiere. Ricordo l’esempio di un detenuto, nell’Albese, che aveva aperto una pizzeria ed era bravissimo».
L’attentato di fossano nel 2006 cospito protesta contro il 41 bis
A proposito di carcere, si è parlato tanto in questo periodo di “regime 41 bis” e in particolare di Alfredo Cospito. Vediamo di chi si tratta. Nato a Pescara nel 1967, ma residente nel quartiere San Salvario di Torino, è ritenuto uno degli elementi di spicco del mondo anarchico torinese. Il suo nome compare nelle inchieste sul mondo dell’insurrezionalismo già nel 1996 ed è in carcere ormai da 11 anni per essere stato l’autore della gambizzazione, nel 2012, dell’amministratore delegato di Ansaldo Nucleare, Roberto Adinolfi. Un attentato che fu rivendicato dal Nucleo Olga della Fai con una lettera inviata al Corriere della Sera. Cospito venne arrestato quasi subito con il suo complice ed amico, Nicola Gai, che è tornato libero nel 2020 dopo uno sconto della pena in appello.
Mentre era in carcere, Cospito è stato accusato anche dell’attentato del 2006 contro la Scuola carabinieri di Fossano. Cosa accadde? Due ordigni erano stati piazzati all’interno di due cassonetti all’ingresso dello stabile dei militari, esplosero senza però causare né morti né feriti.
Per quell’atto Cospito è stato condannato dalla corte d’appello a 20 anni di reclusione con l’accusa di tentata strage. Sedici anni e sei mesi sono stati inflitti alla compagna Anna Beniamino. La Cassazione, invece, ha ritenuto si trattasse di strage contro la sicurezza dello Stato, un reato che prevede la pena dell’ergastolo ostativo, che non permette di godere cioè di alcun beneficio. Lo scorso dicembre la corte d’Assise d’appello di Torino ha sollevato una questione di legittimità costituzionale e ha disposto la trasmissione degli atti alla Consulta. Cospito è il primo anarchico a finire al 41 bis, misura disposta lo scorso maggio per quattro anni. La sua battaglia ideologica si è focalizzata su questo aspetto. Da tre mesi è in sciopero della fame e le sue condizioni di salute continuano a peggiorare di giorno in giorno. Lo scorso dicembre il Tribunale di sorveglianza ha respinto il reclamo avanzato dai suoi difensori contro il regime di carcere duro. Una decisione contro la quale i legali hanno fatto appello in Cassazione che inizialmente aveva fissato l’udienza ad aprile, poi anticipata al 7 marzo.