Ci sono tanti modi di leggere una storia. Ognuna presenta sfumature che le nostre sensibilità colgono in maniera diversa. E come davanti a certi dipinti astratti, è possibile ricevere differenti emozioni. Nei giorni scorsi, da Bergamo, s’è irradiato in tutto il mondo il racconto del primo trapianto di polmone da donatore vivo mai eseguito in Italia però noi non abbiamo visto solo un traguardo medico, una nuova frontiera scientifica ma, prima di tutto, un grande gesto d’amore. Donatore, infatti, è un giovane papà e a ricevere parte del polmone è stato il suo bimbo di cinque anni, che presto potrà correre e giocare: piccole cose solo agli occhi di noi fortunati, incapaci di apprezzare la normalità, di comprendere il privilegio di essere semplicemente sani, e risvegliati da vicende come questa, spinti a rivalutare un quotidiano che è scontato solo in apparenza: «Non ci ho pensato due volte – ha dichiarato Anduel, 34 anni, il donatore: -: si tratta di salvare la vita a tuo figlio. Sono felice, adesso, di immaginarlo muoversi in un parco come gli altri bambini».
La famiglia, d’origine albanese, vive da cinque anni in un piccolo paese del centro Italia, ma, dopo infiniti consulti, ha intrapreso un viaggio di speranza e fiducia verso Bergamo, città della rinascita: lì, il 17 gennaio, presso l’ospedale Papa Giovanni XXIII, si è svolto un intervento da guinness. Undici ore di durata e un centinaio di professionisti coinvolti tra infermieri e medici, impegnati in più staffette nei diversi ruoli: anestesisti, ferristi, chirurghi. Utilizzate due sale operatorie adiacenti in cui si è lavorato parallelamente: nella prima sono state compiute le operazioni di asporto del lobo polmonare paterno, nel secondo è stato impiantato il nuovo organo al bambino.
Tutto è andato bene, tutto – nei limiti d’un intervento delicatissimo – procede bene. Il piccolo dovrà fermarsi ancora un po’ a Bergamo per essere seguito nel decorso post operatorio, ma è stato dimesso il 21 febbraio e nei giorni scorsi è uscito per la prima volta per fare una passeggiata con papà, primi passi – non solo metaforici – verso la normalità che il gesto d’amore gli riconsegna: «Era malato da due anni – racconta Anduel – e purtroppo il trapianto di midollo cui s’era sottoposto non aveva risolto il problema. Ora, però, grazie a Dio e grazie ai medici è andato tutto bene: mio figlio potrà andare all’asilo e giocare con gli altri bambini. Lui adora giocare, non sta fermo un momento, e per me non c’è cosa più bella da vedere: è meraviglioso».
Anduel non pensa a se stesso, non bada alla riduzione del venti per cento del proprio volume polmone. E non lo fa perché in fondo la limitazione è relativa, considerato che le normali riserve polmonari di un adulto consentono non solo di condurre un’esistenza normale, ma perfino di svolgere attività sportiva: lo fa perché salvare la vita del figlioletto, restituirgli le abitudini di sempre, metterlo alla pari con gli altri bimbi, vale qualsiasi sacrificio. Ed è un grande regalo anche per medici e infermieri del Giovanni XXIII: orgogliosi, certo, d’essere stati primi in Italia a effettuare un trapianto così delicato, ma commossi, soprattutto, per aver ridato sorriso e futuro a un bambino.