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«Contro i prepotenti la forza dell’acqua»

La ricetta di Pamela Villoresi, attrice, regista e direttore a Palermo: «La differenza è donna»

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«Pamela cara! Un abbraccio forte. E come sempre brava e seria e disponibile. Sono sempre felice di lavorare con te. Avrai il successo che meriti. Un abbraccio. Giorgio». Giorgio è Giorgio Strehler, il fondatore del Piccolo Teatro di Milano, uno dei registi più rivoluzionari del teatro europeo e non solo e lei è Pamela Villo­resi, donna di teatro a tutto tondo. Il messaggio dalla bella calligrafia accompagnava i fiori che il Maestro le fece recapitare in camerino dopo la prima del Campiello, lo spettacolo del suo debutto al Piccolo Teatro, quasi mezzo secolo fa. Nel frattempo sono successe un po’ di cose e i migliori pronostici si sono realizzati. In numeri parliamo di più di cinquanta spettacoli di prosa – tragici greci, Shakespeare, Goldoni, Cechov, Strindberg, D’Annunzio, tra gli altri -, venticinque recital, film per il cinema e la tv. Fatevi un giro sul suo sito. Attrice, regista e anche valente organizzatrice di quella macchina umana che è il teatro, complessa e imprevedibile come i suoi ingranaggi, piena di insidie e meraviglie. Al punto che il Consiglio di Ammi­nistrazione del Teatro Biondo Stabile di Palermo, all’unanimità dei voti, l’ha chiamata a ricoprire l’incarico di Direttore del Teatro per il quinquennio 2019-2023. Una donna alla guida, finalmente.

Pamela, non sarà stato facile.
«No. Non sempre la società è pronta. Ci sono forme diverse di imporre la disciplina e il rigore e la mia punta su un lavoro di squadra. Ma resistono ancora atteggiamenti violenti, di prevaricazione, di fronte ai quali mi chiedo come devo pormi».

E come si pone?
«Sto imparando la forza dell’acqua, che anche se incontra tanti ostacoli, arriva sempre al mare».

E gli ostacoli arrivano prevalentemente da uomini?
«Non si può generalizzare ma… sì, prevalentemente».

Oggi in Italia abbiamo una donna capo di governo e un’altra donna che è appena stata eletta segretaria di partito. Giorgia Meloni ed Elly Schlein, due pensieri divergenti, molto lontani tra loro. È davvero una conquista da entrambe le parti?
«Io credo di sì. E anche se i miei valori sono nel segno dell’accoglienza, credo che una donna, anche all’interno della propria fede politica, porti con sé la differenza».

Ma quale, esattamente?
«Se parliamo di posti di comando, le donne li vivono più come un servizio, gli uomini come esercizio di potere».

E a proposito di servizio, se la sente di azzardare un bilancio dopo tre anni di direzione?
«Per avere condotto una nave nei peggiori mari della sua storia, il bilancio è positivo. Con la pandemia ab­bia­mo perso il contributo del comune, siamo sepolti di lavoro con un organico ridotto eppure stiamo registrando un incremento di pubblico soprattutto giovane, gli spettacoli piacciono e questo è quello che più conta».

Allora parliamo di “Seagull Dreams – I sogni del Gab­biano”, lo spettacolo in tournée diretto da Irina Brook, figlia di Peter e Natasha Parry.
«È la prima tappa di un percorso articolato che Irina ha fatto con noi, precedente al primo lockdown. Mi ha detto subito che non voleva portare in scena il teatro ma la vita e che avrebbe voluto lavorare coi giovani. E noi avevamo gli allievi della scuola, il primo corso di studi universitario d’Italia dedicato alla recitazione, alla regia e alla drammaturgia. Con il senno di poi ci siamo accorti che era un progetto perfetto perché durante il lockdown ha potuto lavorare in collegamento da Londra e ha raccolto le prime testimonianze da casa, mondi chiusi nelle nostre stanze, che sarebbero poi confluite nel testo».

Quindi si tratta di una riscrittura di Cechov?
«Si tratta di un percorso tra le nostre vite e il testo infatti lo abbiamo intitolato I sogni del gabbiano. Ci sono parti di testo e battute di Cechov ma anche battute nuove, nate in sede di improvvisazione. Ha presente il film di Louis Malle Vanya sulla 42esima strada? Ecco, noi siamo una compagnia che met­te in scena Il gabbiano e più che il sipario, si aprono i camerini».

E cosa ne esce?
«Irina ha voluto lavorare sulle dinamiche del disagio giovanile dando ampio spazio alle nuove tecnologie. Ci sono molte im­magini prese da Tik Tok e Trigorin si collega via zoom».

Che Arkàdina è uscita dal ca­merino di Pamela?
«Eh, anch’io sono attrice e madre e i miei figli mi rimproveravano che non c’ero mai».

Come si è trovata con le im­provvisazioni?
«L’anno scorso ho fatto cinquant’anni di teatro ed era la prima volta che andavo in prova senza copione. Ma bisogna rimettersi in gioco. Era dai tempi di Strehler che non godevo così».

Ci racconti di lui.
«Mi ha fornito i ferri del mestiere e mi ha insegnato a osare e rischiare sempre, a non portarsi dietro il metodo e la mediocrità. Ci chiedeva di essere creativi e diceva che non era un vigile urbano».

In che senso?
«Nel senso che non doveva dirigere gli attori come il traffico: avanti dottore, più indietro, di lato. Lui ci dava gli strumenti da elaborare con la nostra creatività. Spesso ci aiutava a entrare nell’anima dei personaggi raccontando episodi di vita che evocavano l’atmosfera della scena».

Ha lavorato anche con Vitto­rio Gassman, io ricordo un Otello di mille anni fa in cui faceva Desdemona.
«Era l’82 e stavo allattando il mio secondo figlio. Gassman aveva un carisma assoluto, come il vento. Ho imparato anche spiandolo dietro le quinte anche se l’impatto non è stato indolore. Lui era un attore d’assalto, della scuola che “te la devi cavare”. Io venivo da spettacoli con tre mesi di prove. Ma una sera dietro le quinte mi disse “ brava!”».

A cura di Alessandra Bernocco