I fedeli delle serie lo conoscono soprattutto per il ruolo di Filippo De Silva in “Squadra antimafia – Palermo oggi”. Ma Paolo Pierobon alla televisione è arrivato dopo quindici anni di teatro di quelli seri, dopo spettacoli che erano faticose maratone di ore con registi come Luca Ronconi, Eimuntas Nekrošius o con Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani del Teatro dell’Elfo di Milano, uno dei templi della miglior prosa. E dal teatro in verità non se n’è mai andato, consapevole che il pubblico che lo applaude in scena non è lo stesso pubblico della tv, per esigenze, aspettative, disposizione. Tant’è che l’incontro tra attori e spettatori organizzato dallo Stabile di Torino Teatro Carignano dov’è in scena con un molto singolare Riccardo III, era lì prima ancora di avere assistito allo spettacolo. Curioso, fiducioso, interessato.
Pierobon, cosa gli avete raccontato?
«Io preferisco sempre parlare dello spettacolo con chi lo ha già visto, ma la premessa fondamentale in questo caso è chiarire che non si tratta di un testo originale ma di una vera e propria riscrittura realizzata a priori, che chiama dentro riferimenti contemporanei pur affrontando tematiche shakespeariane».
Quali riferimenti?
C’è un momento, dopo l’incoronazione, che avviene al culmine di una trasmissione trash, in cui Riccardo dice “mi commuove questa attenzione diplomatica che da qualche ora mi circonda”. E chiede “cosa dicono a Teheran?”, “da Mosca si sono congratulati?”. Sono battute che fanno risuonare qualche campanello anche se non ci troviamo davanti a un Tg».
E anche se Shakespeare c’entra poco o niente.
«Non è vero che non c’entra. Ci sono interi pezzi originali, la drammaturgia è 50 – 50. È la linea seguita da Kriszta Székely, la regista, e da Ármin Szabó-Székely, autore dell’adattamento. Un lavoro simile lo avevamo già fatto con “Zio Vanja” di Cechov».
O da Cechov, mi viene da dire. E anche da obiettare: se volete parlare di Mosca e di Teheran, perché non scrivete un testo ex novo?
«Obiezione accolta. Il dibattito è aperto. E anche lo scambio dialettico tra noi è sempre stato molto vivo, ma la regista è lei e io credo che tutto dipenda dal risultato: se le innovazioni rimangono delle trovate l’operazione è inutile ma se c’è a monte una visione precisa e potente, in grado di offrirti una prospettiva nuova, diversa rispetto a quello che già ti aspetti da un classico, allora l’operazione ha un senso. E poi chi può davvero ricreare il Seicento di Moliere o lo Shakespeare dell’età elisabettiana? Il nostro è un tentativo di avvicinarci alla platea attraverso i classici ma in modo non strettamente filologico».
Anche il suo Riccardo senza gobba non è filologico. Come ha lavorato sul personaggio?
«Annullando metà parte di corpo, rendendola inerte. E sono partito da un dato concreto, personale: anch’io sono nato podalico e ho passato due settimane in incubatrice. In questo caso ho lavorato sul rancore che si può sviluppare quando fin da bambini si viene trattati in modo diverso».
Un lavoro di tipo strasberghiano?
«Quello riguarda soprattutto il cinema ma Strasberg mutua il suo metodo dalla Russia di Stanislavskij. Il mio lavoro è stato il lavoro dell’attore, semplicemente, che deve partire da sé, deve prendere qualcosa di concreto di sé e della sua storia. Immaginando, anche, perché quando l’immaginazione è grande, diventa immedesimazione. Se le suggestioni sono forti, allora puoi crearti il tuo film».
E come si evolve il film di Riccardo?
«Nutrendosi di quel che accade intorno, attraverso un discorso organico, anche incoerente, perché troppa coerenza porta il personaggio all’ottusità. Ognuno di noi invece è contraddittorio. Riccardo è crudele ed è il massimo della simulazione».
Un ipocrita.
«Più che ipocrita è uno stratega. L’ipocrisia si limita al pensiero, all’opinione, lui invece agisce, finge di prendere le parti della vittima che poi per primo maltratta, ed è sincero con il pubblico».
In che senso, sincero?
«Shakespeare riserva a Ric- cardo molti “a parte”, in cui si rivolge direttamente al pubblico. Prima comunica al pubblico il suo programma poi lo si vede agire. È un personaggio che si divide tra una dimensione frontale col pubblico e una dimensione interna alla quarta parete».
Lavora spesso con registi stranieri, penso anche a Nekrošius (maestro lituano morto cinque anni fa) con cui fece Anna Karenina. Come ve la cavate con la lingua?
«Sembrerebbe più difficile e invece ti sgamano subito. Non avendo da parte tua la retorica del linguaggio, non puoi barare. Loro sentono il suono e capiscono se sei centrato con il corpo».
Si dice che Nekrošius non avesse un buon carattere.
«Non è vero, aveva una sua giocosità nascosta, un uomo coltissimo che ti guardava con quegli occhi di ghiaccio ma poi ti confessava che avrebbe voluto fare il guardiacaccia. Ricordo le prove al Teatro delle Passioni di Modena e le improvvisazioni con gli oggetti rinvenuti in una discarica, cianfrusaglie, letti devastati in ferro battuto».
Improvvisazioni? Allora facciamo un salto a Luca Ronconi con cui ha lavorato tantissimo e non credo facendo improvvisazioni.
«Io ogni volta che lavoro con un regista cerco di mantenere un mio punto di vista ma in movimento, cioè adattandomi alla poetica di ognuno. Quello della coerenza è un falso problema».
Uno spettacolo di Ronconi a cui è particolarmente legato?
«La compagnia degli uomini di Edward Bond dove facevo un maggiordomo alcolizzato, una specie di Zanni che parlava un grammelot con accento sardo. Entravo in scena con Gianrico Tedeschi, già novantenne, che mi disse “non fare mai teatro dopo i novant’anni”».
Ci regali anche un ricordo della Lehman Trilogy, la sua ultima regia.
«Luca è sempre stato spettacolare nella lettura a tavolino dove si rivelava un grandissimo attore. Era un regista autore nel senso che dava ai testi un’autonomia mai scontata e agli attori apriva prospettive inedite. La Lehman è stato un chiarissimo esempio di questo lavoro, le prove erano commoventi, avevamo spesso gli occhi lucidi e la consapevolezza che sarebbe stato il suo ultimo spettacolo. Era eroico, veniva da anni di dialisi a cui si sottoponeva tutte le mattine, prima di affrontare otto ore di prove».
Lo scorso anno è uscito “Esterno notte” di Marco Bellocchio, il suo secondo film su Aldo Moro, in cui lei era Cesare Curioni, un religioso che fu presidente della commissione dei cappellani militari.
«Bellocchio! Un altro grande Maestro, un ragazzino che dà la pista a tutti. A fine set noi morti di stanchezza e lui con l’energia e la vitalità di un ventenne. Ecco, quanto a vitalità mi ha ricordato Ronconi».
Articolo a cura di Alessandra Bernocco