Capelli scurissimi e carnagione diafana, lineamenti decisi e perfetti che si sciolgono in un sorriso aperto, dietro al quale prova a schermirsi di fronte a un complimento o a uno sguardo ammirato, corpo morbido ed elegante, Mariangela D’Abbraccio sprigiona una femminilità sicura e prorompente, per nulla ordinaria, una femminilità che sollecita quell’amor platonico altrimenti detto eros – ben altra cosa dal desiderio elementare dei comuni mortali -, che ti avvicina almeno un po’ a quell’ideale di bello e buono, archetipo di bellezza piena e perfetta. Ecco, mi pare suonasse più o meno così l’amoroso ritratto che Giorgio Albertazzi faceva di Mariangela, “un’albicocca”, ebbe persino a definirla una volta. Tant’è che la volle accanto ne “Il genio”, commedia sul teatro firmata a due mani da Damiano Damiani e Raffaele La Capria in cui Mariangela interpretava un transessuale, ovvero l’esultante trionfo del femminile. Era il 1984, l’inizio di un sodalizio umano e professionale che si sarebbe protratto per anni, producendo, tra l’altro, uno spettacolo che è parte della memoria collettiva di chi ama il teatro: “Il ritorno di Casanova”, dal racconto di Arthur Schnitzler.
Prima di calarci nel presente, vorrei un ricordo di Giorgio Albertazzi.
«Allora le do un’anteprima. Quest’estate ci ritroveremo per il centenario alla Pescaia, la tenuta di sua moglie Pia Tolomei, in Maremma, dove ogni anno si dà una festa per Giorgio, il 20 agosto, giorno del suo compleanno. Quest’anno la festa sarà ancora più grande, sarò insieme a Elisabetta Pozzi e Laura Marinoni e leggeremo parti della sua biografia (“Un perdente di successo”, recentemente ripubblicata da Rizzoli) alternate a ricordi e dichiarazioni personali e la sera prima ci sarà un concerto jazz in cui daremo voce alle sue poesie inedite, una sorpresa su cui stiamo già lavorando».
Con Elisabetta Pozzi siete non solo accomunate dal forte legame con il compagno e Maestro ma avete lavorato insieme più volte. Penso per esempio a “Maria Stuarda”, testo scritto da Dacia Maraini.
«Uno spettacolo che ancora ci chiedono. Era stato un incontro magico, a quattro, perché mio marito, Francesco Tavassi, firmava la regia e il suo, Daniele D’Angelo, le musiche. Il risultato era perfetto, come dopo un lavoro che procede in modo fluido, in cui non ti devi dare tante spiegazioni».
Dacia Maraini aveva scritto un testo che si offriva al virtuosismo, in cui le regine interpretavano anche le serve. Ora è in scena con “Teresa la ladra”, commedia che la stessa autrice ha tratto dal suo romanzo “Memorie di una ladra”, poi divenuto un film con Monica Vitti. So che il pubblico del Parioli di Roma ha molto gradito.
«Lo spettacolo parte direttamente dal romanzo adattato da Dacia stessa che ha anche scritto, insieme a Sergio Cammariere, otto canzoni. È un’opera musicale con quattro musicisti in scena che mi fa piacere citare perché ne sono parte fondamentale: Gianluca Casadei (fisarmonica), Dario Piccioni (contrabbasso), Lucrezio De Seta (batteria), Augusto Creni (chitarra). È stato pubblicato anche un disco e questa è una ripresa con la regia di Francesco Tavassi».
Chi è Teresa?
«Una donna realmente esistita che Dacia aveva incontrato nel corso di un’ inchiesta sulle carceri femminili ed era stata colpita dalla sua personalità e vitalità. Una randagia cacciata di casa che si ritrova a rubare per sopravvivere, a darsi da fare come può, anche in modo buffo. Arriva dalla campagna, la città la divora, dorme nelle grotte, finisce in galera e in un manicomio criminale ma resta ottimista, nonostante tutto. Priva di strumenti e di educazione ma con una grande ironia. E sa trasformarsi in continuazione: per rubare si finge turista e si veste elegante. Ci sono scene in cui si cambia una ventina di volte».
Mi viene in mente Arturo Brachetti con cui fece “I massibili” di Marcel Aymé e lui interpretava trentatré ruoli diversi. Gli ha chiesto suggerimenti?
«Sì, ma purtroppo era all’estero. Sono stati importantissimi i costumi di Maria Rosaria Donadio, che diventano storia».
A suo tempo era riuscita a carpire a Brachetti qualche segreto?
«Macché, pur stando sempre in quinta non ho mai capito come facesse. E dire che avevamo girato per due anni. Le trasformazioni accadevano ma nessuno capiva come. E Arturo era irresistibile, ci faceva anche tanti scherzi. Una volta si è presentato con una mano amputata».
Questo non è il primo spettacolo in cui canta e sul suo profilo troviamo scritto attrice e cantante: cosa pesa di più?
«Io ho sempre voluto fare l’attrice, anche se il canto è una parte importante del mio lavoro, ho anche inciso tre dischi. Il canto risale ai miei esordi, con un gruppo di cantanti ballerine, le Camomille, prima che tutto iniziasse veramente».
È vero che è stata fidanzata con Enrico Ruggeri?
«Era il periodo delle Camomille, avevo diciassette anni. Io però volevo recitare. Fu grazie a Pino Daniele che iniziai a fare l’attrice».
Pino Daniele?
«Sì, io volevo andare a Milano, al Piccolo c’era Strehler, ma Pino mi disse “tu sei napoletana” e mi suggerì di rivolgermi a Eduardo».
E lei?
«Detto fatto. Il giorno dopo mi presentai all’università dove Eduardo insegnava drammaturgia chiedendo di poter assistere alla lezione e il giorno dopo firmai il mio primo contratto a casa sua».
Un ingaggio a prima vista.
«Cercavano un’attrice per “Ditegli sempre di sì”, la commedia che la compagnia Luca De Filippo stava mettendo in scena, con la regia di Eduardo. E nel giro di cinque giorni mi ritrovai sul palcoscenico».
E il sodalizio con Luca si ripeté anni dopo con “Napoli milionaria”.
«Infatti, questa volta diretti da Francesco Rosi. Ma Luca, soprattutto, mi concesse i diritti per “Filumena Marturano”, uno spettacolo bellissimo diretto da Liliana Cavani che lui purtroppo non riuscì più a vedere».
Non è stata la prima volta che affrontava quel testo: nella versione diretta da Egisto Marcucci con Valeria Moriconi, lei era Diana, l’amante.
«Valeria! Una Filumena straordinaria. Pagò il fatto di non essere napoletana, e i napoletani sono severi ma era così giusta nell’indole! Eduardo poi aveva proprio lasciato scritto che voleva che Valeria fosse Filumena. Voleva che i suoi testi arrivassero a tutti».
Come spettatrice cosa sceglie?
«Al cinema tutto tranne l’horror, a teatro sono curiosa: anche di sapere quello che non si deve fare».
È vero che non ama il rock ma ama Springsteen?
«Preferisco il jazz e i nostri cantautori ma ci sono cantanti rock che mi interessano come persone, per i testi che scrivono. Springsteen è un poeta».
E allora?
«Allora lo affronto come tale e da un anno porto in scena i suoi testi che sono dichiarazioni, proteste, riflessioni sugli ultimi, sul sogno americano, racconti di vita dura, di fallimenti, di problemi di sopravvivenza. Lo faccio con uno spettacolo che ha debuttato al Napoli Teatro Festival e si intitola come la sua raccolta pubblicata da Mondadori, “Come un killer sotto il sole”. Lo riprenderemo quest’estate».
Articolo a cura di Alessandra Bernocco