Il lungo viaggio della memoria «Di padre in figlio»

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Il pediatra cantautore. Il cantautore pediatra. Qua­le sia la priorità è in realtà un falso problema. È l’uno e l’altro e non soltanto l’uno e l’altro. Circo­scrivere Andrea Satta in una delle sue mille attività, dei suoi cento ruoli, delle sue inenarrabili avventure, dei suoi progetti temerari e spesso imitati, non è proprio possibile. Fondatore e frontman dei Têtes de Bois, gruppo dalla storia ormai trentennale, Satta è anche pediatra di frontiera nella periferia romana e i suoi piccoli pazienti arrivano da ogni parte del mondo. Le loro storie e quelle delle loro famiglie, amorevolmente raccolte e reinventate, sono confluite in due volumi (“Ci sarà una volta” e “Mamma quante storie!”) e trovano voce sul palcoscenico in uno spettacolo che ha girato l’Italia in lungo e in largo. La sua storia invece, o meglio, quella di suo padre, l’ha raccontata in un libro uscito lo scorso anno per Mondadori, “La fisarmonica verde”, che è un po’ il tentativo di elaborare a posteriori quello che al presente non era riuscito ad affrontare. Per pudore, forse, o perché crediamo sempre di avere ancora tempo. E siccome il palco è il suo habitat naturale ecco che anche questa storia è diventata uno spettacolo con la regia di Ulderico Pesce, un teatrante visionario con i piedi ben piantati per terra.

Satta, cosa racconta “La fi­sarmonica verde”?
«Racconta di un viaggio della memoria fatto insieme a mio figlio. Meta, la Germania, ai confini con la Polonia, campo di concentramento di Len­genfeld. Lì mio padre, suo nonno, venne deportato dopo l’8 settembre perché considerato traditore».

Suo padre era un militare?
Un giovane soldato che non aveva voluto abbracciare la Repubblica Sociale che lo avrebbe invece risparmiato. Sarebbe stata la via di uscita. Su 800mila militari 650mila han­no ceduto. Gli altri 150mila sono finiti nei lager».

Una questione di coerenza.
«Io credo che nelle situazioni ci si debba trovare, a freddo è difficile giudicare e dire qualcosa di sensato. A volte gli uomini sono più grandi di quello che sarebbero se ragionassero troppo. La sua fu una scelta di cuo­re, di semplicità».

Il libro suona come un risarcimento al silenzio che c’è stato tra voi. Perché a volte è tanto difficile parlare? Quanto gioca la rimozione?
«Come non capirla, la rimozione. Ma la vita è lunga e io avrei dovuto rivolgergli le domande giuste, trovare il tempo rubandolo alla canonicità degli in­contri».

Cosa gli chiederebbe?
«Difficile. Forse se fosse qui adesso non saprei cosa chiedergli come non lo sapevo prima. È una dannazione circolare: la stessa che ci impedisce di vedere la bellezza quando ce l’hai sotto mano e poi ti ritrovi a rimpiangerla quando non c’è più».

Almeno una cosa ce la dica.

«Gli chiederei il perché non ha cercato i suoi compagni. Anzi no, gli direi “papà andiamo insieme a cercarli”».

Invece sulle loro tracce ci è andato insieme a suo figlio. Cosa gli ha risposto quando le ha chiesto “può succedere ancora?”.

«La risposta ora è nei fatti, purtroppo. La guerra così vicina dimostra che siamo poco intelligenti e non ricordiamo che la guerra è guerra, sia per le vittime sia per i carnefici».

C’è una frase che vale la pena riprendere per una serie di ragioni: prima gli italiani.
«Una frase che i nazisti di quel lager riservavano agli Imi italiani, i primi a dovere essere uccisi, i traditori. Mi è tornata in mente quando l’ho sentita dire da Matteo Salvini. Occhio a voler essere i primi!».

Cosa c’entra la fisarmonica verde?
«È quello che portò con sé dal lager, insieme a un segreto».

Quel segreto per il quale dice, nello spettacolo, “perché non mi hai detto della lettera”?

«Sì».

Rinviamolo al lettore. Nel libro si parla anche della Sardegna degli anni Trenta, la terra di origine della sua famiglia, della Roma della rinascita e della sua Roma di ragazzino, quando portavate a spalle la legna per la stufa nella vostra casa al sesto piano. Arrivano da lì i Têtes de Bois (teste di legno)?
(Ride) «No. Têtes de Bois è il titolo di una canzone di Gilbert Bacaud e di una trasmissione francese, la prima che usciva dai cliché paludati della radiofonia di quegli anni. E poi significa scavezzacollo, irregolare».

Si considera un irregolare?

«E chi può dirselo da solo? I fatti casomai lo suggeriscono».

Cosa le fa venire in mente la parola regola?
«La noia. D’altra parte anche l’amore non ha regole, è l’amore stesso che stabilisce le sue».

Veniamo ai vostri esordi, irregolari assai. Un camioncino per palcoscenico, sotto la statua di Giordano Bruno.
«Giordano Bruno ci stava a cuore e poi Campo dei Fiori era l’unica piazza non vincolata dalle Belle Arti. Il camioncino è stato un ripiego perché non avevamo il permesso di occupazione del suolo pubblico e con quello ce la cavammo con una multa».

Allora cantavate le canzoni francesi di Leo Ferré e Georges Brassens e le poesie di Baudelaire. Qual è l’album a cui è più legato?

«Adoro Leo Ferré, mi struggo ad ascoltarlo. Il nostro album? “Pace e male”, un doppio del 2004. In quel periodo attraversavamo cose belle, persino troppe, e quel disco è un flusso continuo di pensieri».

Ci racconti invece di un’esperienza molto concreta, quella di Stradarolo: si può dire che siete stati i pionieri delle notti bianche romane?

«Con meno risorse, forse. Un festival di arte su strada nato da una scommessa. Chiedemmo al sindaco di liberare dalle macchine il centro storico di Zagarolo (comune alle porte di Roma, ndr), si suonava agli incroci e ai semafori. Il paese aveva un’altra faccia e gli abitanti erano contenti. Si vedevano bene i portoni, gli alberi sembravano più alti».

Gli alberi, la sostenibilità, la bicicletta, altra sua grande passione. “Goodbike” non è solo un album ma prima di tutto uno spettacolo.
«Un eco-spettacolo sulla bicicletta alimentato a pedali da un centinaio di spettatori volontari. Ne è nato un film, “Film a pedali”, diretto da Agostino Ferrente dove con noi c’era anche Francesco Di Giacomo, la voce del Banco del Mutuo Soccorso».

Cosa ha significato Di Giacomo per voi?
«È stato un incontro dirimente per tutti, per l’amore che ci ha regalato. Gliene abbiamo fatte fare di tutti i colori».

Tipo?

«A Stradarolo l’idea era quella di commentare dall’alto quel che succedeva per trasmetterlo da una radio locale così lo abbiamo fatto salire su una mongolfiera. E in un’altra occasione gli abbiamo fatto attraversare un ponte tibetano».

Con il suo fisico?
«Infatti. Francesco e il ponte tibetano: un ossimoro fatto realtà».

Dal lager in quella che ha definito la Siberia d’Europa alla contromarcia su Roma, un evento che avete curato insieme al Teatro Verde di Roma: chiudiamo questo cerchio. Cosa è stata esattamente la contromarcia del 2022?
«La controstoria di un anniversario. Un viaggio lieve, percorso al contrario, attraverso i luoghi della tragedia. Non la risposta più prevedibile fatta di simboli antifascisti, ma la risposta attraverso l’arte, lo stupore, l’incantamento, la fantasia».

“Nella retromarcia su Roma c’è tutta la storia di un gesto poetico”. Lo dice Massimo Pasquini, autore di “La strada, il palco e i pedali. Trent’anni di storie dei Têtes de bois”, il libro appena uscito da Squilibri Editore. Un racconto pieno di aneddoti e di incontri da parte di un amico giornalista che vi segue da sempre. Chi è Massimo per voi?
«La quinta testa di legno».

Articolo a cura di Alessandra Bernocco