Continua il «cineforum» del «Circolo Pensionati» di Boves del venerdì sera, sin ad inizio maggio (otto appuntamenti in tutto), all’Auditorium Borelli, con attento patrocinio comunale e supervisione tecnica del bovesano Celestino Giordano. Costante ed attenta è la presenza di pubblico, con gruppo di «affezionati» sempre presente e con organizzatori complessivamente soddisfatti, anche se simile iniziativa meriterebbe persin più spettatori.
Dopo la sosta di venerdì 7 aprile, quello prima di Pasqua, «Santo», l’appuntamento è stato il 14 con «I girasoli», interpretato da Marcello Mastroianni e Sofia Loren, del 1970, per la regia di Vittorio De Sica (che si è già visto nel «Cineforum» come protagonista della prima proiezione, «Pane, amore e fantasia»), che dirige,in questa occasione, per l’ultima volta (morì nel 1974) una delle migliori coppie di attori del cinema italiano del dopoguerra… Si tratta di un film bellissimo, non noto come meriterebbe, forse per quelle «imperfezioni» che non lo fanno includere da tutti, pur premiato, tra i veri capolavori della cinematografia nazionale (tra i quali, comunque, forse, un posticino lo merita). Coproduzione italo-francese-sovietica, vanta una sceneggiatura firmata dai grandi Cesare Zavattini e Tonino Guerra, accanto Georgij Mdivani, pur con la trama che scivola, soprattutto nel finale, in toni piuttosto «melodrammatici» (pur interpretati da par loro dai due protagonisti). È la storia di Giovanna ed Antonio, che si conoscono, non proprio di «primo pelo», durante la guerra, nella Napoli di lei, e si amano. Nonostante le ritrosie di lui (nei panni di un settentrionale, pur essendo, notoriamente, Mastroianni ciociaro, come De Sica, di origini e cuore napoletani), lei, forse dei due quella che più si innamora, lo convince a sposarla, anche per avere la licenza, evitare il fronte. Nel paese di lui, dove trascorrono passionale «luna di miele», provano persino a simulare la sua follia, un finto tentativo di uccidere lei, per farlo «restare a casa». Scoperto il trucco (son spiati nel parlatorio del manicomio, dove danno sfogo alla passione), Antonio, per evitare la Corte Marziale, deve arruolarsi volontario per il fronte russo, dal quale non ritorna dopo la fine delle ostilità. Lei lo aspetta fedele, insieme alla suocera (con cui, come quasi sempre, i rapporti proprio affettuosi non sono). Non si convince che sia morto (anche se un reduce tornato le racconta di averlo dovuto abbandonare nelle neve, con principio di congelamento, durante la ritirata dal Don) e parte a cercarlo, solo per trovarlo a vivere con la bella, giovane, rossa Masa, l’attrice sovietica Ljudmila Savel’eva, che lo ha salvato dalla morte gli ha anche dato una figlia. Ottime sono le riprese, come sempre con De Sica, il loro apice sono quelle della guerra in Russia, con sullo sfondo bandiera rossa sovietica a garrire, ma anche con tutte le ambientazioni, italiane e sovietiche, notevoli (la coproduzione servì a permettere le riprese in quel Paese). I girasoli che danno il titolo all’opera sono quelli che crescono sulle tombe dei Caduti, italiani, tedeschi e russi. Stupenda è la scena dell’incontro tra Masa e Giovanna, con quest’ultima che prende un treno «al volo» per non incontrare il marito. Ed il film potrebbe finire lì. Vi è l’ultima parte di inutile ritorno di Antonio in Italia (che un po’ legato a Giovanna si sentiva, evidentemente), il chiederle, rapito ancora dalla passione, di «fuggire insieme»… Le racconta di aver «perso la memoria», della russa che lo ha salvato e gli è stata vicina nella convalescenza… Notoriamente la carne è debole… Ma lei ha lasciato il paese di lui e l’odiosa suocera, è andata a lavorare in fabbrica a Milano… Ha compagno, collega di lavoro, che non si vede (impegnato nel «turno di notte) e figlio (nella sua unica immagine è interpretato dal vero figlio della Loren e del marito Carlo Ponti, produttore, anche del film)… I due si devono «sacrificare», per le rispettive famiglia… Giovanna lo riaccompagna alla stazione centrale di Milano, come aveva fatto quando lui doveva andare al fronte, dove parte per Vienna, per tornare definitivamente in Russia… Alla stazione, al suo arrivo, vi è sciopero, nel bar la televisione trasmette immagini del festival di Sanremo… Idea all’altezza del trio De Sica-Zavattini-Guerra è l’incontro con una prostituta veneta… Alla fine della proiezione molta era la commozione in sala, soprattutto femminile… Per l’interpretazione la Loren ricevette un premio «David di Donatello». La colonna sonora di Henry Mancini ebbe candidatura all’Oscar…
Si continuerà, poi, con «Lo chiamavano Trinità», lo spaghetti western comico che lanciò la coppia Bud Spencer e Terence Hill, ma non il 21, come previsto, visto che il Borelli sarà chiuso, per preparare la visita del 25 aprile del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, dal 17 al 26. La proiezione è spostata a giovedì 27. Restando «La vita è bella», il film sull’Olocausto che fece vincere Oscar a Roberto Benigni (già protagonista sullo schermo del cineforum con «Il piccolo diavolo», paio di settimane fa), sempre fissata a venerdì 28, avremo una intensa «due giorni cinematografica» di fine aprile… Si tornerà a ridere, sorridere, anche riflettere…
«Lo chiamavano Trinità» (altra opera del 1970) è il più grande successo del regista romano Enzo Barboni, che si firmava «E. B. Clucher», per darsi tono più «americano» (come fece Sergio Leone nei suoi primi western). I pistoleri-banditi fratelli Trinità e Bambino, ghiotti di fagioli, si trovano ad affrontare il prepotente di turno, anche per difendere Comunità mormone, alternando la classica pistola agli «sganassoni», il loro «marchio di fabbrica».
«La vita è bella» (1997) più che essere un film è come due opere di un tempo cadauna unite insieme. Nel primo tempo, il più comico, Guido Orefice, Roberto Benigni, cameriere-poeta, riesce a conquistare Dora (la sua moglie anche nella vita, Nicoletta Braschi)… La scena è in solare toscana, nel bellissimo centro storico di Arezzo… Si vive, negli anni Trenta, in un regime fascista (abbondantemente preso in giro) sempre più razzista, ormai verso l’alleanza con la Germania. Lentamente si capisce che Guido, come il signorile zio Eliseo (un bravissimo Giustino Durano), suo superiore al «Grand Hotel», è ebreo. Nel secondo tempo ci si sposta (siamo ormai nel 1944) in un lager, la luce si fa cupa, i colori freddi (anche se il set resta in Italia, in fabbrica dismessa a Terni). Guido (nel frattempo diventato titolare di libreria), Giosuè, il figlio avuto da Dora, e lo zio (subito ucciso) son deportati dai tedeschi. Dora ha, volontariamente, seguito figlio e marito (ma i due resteranno sempre separati). Guido prova a salvare fisicamente e psicologicamente il figlio inventando per lui che si è in un «grande gioco», per il quale il premio è un carro armato. Il carro armato, americano, arriverà davvero, nel finale, con Guido appena ucciso e con Giosuè e Dora che possono riabbracciarsi…
Poi si terminerà con il magistrale, bovesano, «Rasmus e il vagabondo», di Adriano Peano, che ha riempito di immagini la memoria locale, il 12 maggio, ottavo ed ultimo appuntamento, almeno per questa stagione…
L’orario d’inizio della proiezione resta alle 20,30. L’ingresso in Auditorium è, ancora, libero…