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«La nostra storia ci ha consegnato un’identità fragile»

Il conduttore di “Radio anch’io” e “Quante storie” racconta ogni giorno un Paese complesso: «I politici oggi sono più giovani ma non so quanto più competenti. Nei dibattiti sono molto diplomatico, ai ragazzi di Ultima Generazione ho cercato di spiegare che il “mainstream” non è sempre fuorviante»

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Tutto è partito dal lavoro di ogni giorno: «Ne è venuto fuori uno “spin off” della mia attività». E dall’idea suggerita dal direttore di Rai Libri, Michele Frittella: «Ha attizzato il fuoco sotto alla cenere della mia attività, in una telefonata. Mi ha detto: ti misuri quotidianamente con ascoltatori e telespettatori, so­no un campione rappresentativo ed è da anni che lo fai. Non credi si possa ricavarne un se­gnale di ciò che noi italiani siamo o che siamo diventati?». E da lì è nato il progetto del libro appena scritto da Giorgio Zanchini, “Esistono gli italiani? Indagine su un’identità fragile”.

In fondo con “Radio anch’io” lei offre uno spaccato quotidiano dell’identità italiana.
«La trasmissione tratta temi di politica, società, economia e quin­di molta attualità. In qualche modo è una fotografia. Da un lato, delle classi dirigenti protagoniste della vita pubblica e dall’altro di ciò che gli ascoltatori vogliono mettere in scena di loro stessi. C’è sempre l’elemento della medietà, non del medium. È quello che loro scelgono di dire o di rappresentare di loro stessi. Io immagino che ci sia una certa sovrapponibilità tra le posizioni che uno esprime e ciò che si pensa, pe­rò è presunzione di principio».

Qual è l’identikit che emerge?
«Da un certo punto di vista gli italiani sembrano sempre u­guali. Io faccio riferimento al Censis, prendo le mosse dalla chiacchierata con il presidente Giuseppe De Rica e poi da un’intervista con l’attuale di­rettore, Massimiliano Valeri. Se vogliamo rifiutare – cosa che io faccio – le categorie eterne di italianità, quelli che pensiamo come stereotipi, evitando una ricerca storica troppo complicata, il modo migliore è studiare i rapporti del Censis. O dell’Istat: se li monitori anno per anno, vedi cosa pensano gli italiani e in quali valori credono. Il che significa fotografare gli italiani nel tempo. Dal punto di vita epistemologico credo sia l’operazione più corretta».

Ha seguito le polemiche che hanno accompagnato la campagna “Open to” per promuovere l’immagine turistica dell’italia?
«D’istinto mi è sembrata un po’ corriva, frettolosa».

In radio ha ospitato una ragazza di Ultima Generazione: un dialogo difficile?
«L’interlocutrice che avevo in trasmissione, Carlotta, era aggressiva, però direi legittimamente. Non è semplice il dialogo, certi mondi sono così aggressivi perché pensano di essere mal compresi o mal rappresentati, dobbiamo sempre fare lo sforzo di costruire un dialogo. Per ascoltare come la pensano, cercando però anche di far capire che il mainstream non è necessariamente fuorviante».

Le questioni ambientali cambieranno gli italiani?
«Ci impongono di cambiare, ma come accade per tutti i cittadini del mondo. Le caratteristiche orografiche del nostro territorio, lo sappiamo, ci rendono uno dei paesi più fragili e forse saremo costretti a cambiare prima degli altri. Però non è che gli italiani non cambiano mai: lo fanno perché cambia la storia e con essa le condizioni sociopolitiche. Queste ci spingono a modificare la visione del mondo, quindi anche le nostre relazioni. È sempre la storia che suggerisce il nostro punto di vista. E questo significa che la politica ha una responsabilità enorme, ma è una mia convinzione».

Abbiamo un patrimonio culturale immenso: allora perché il riferimento all’identità fragile? Non è una contraddizione?
«Abbiamo un’iden­tità storica e culturale fortissima. Però se ci pensiamo, deriva anche dal fatto che siamo un paese di recente unificazione. Cioè, la ricchezza e il policentrismo italiani, che sono un valore lodato dal mondo, oltre a questo patrimonio artistico quasi senza pari, sono figli di una storia di divisioni. Noi abbiamo avuto tante capitali di altrettanti stati. Si tratta di uno degli elementi che rende l’identità di questo paese fragile. Un Paese di piccole patrie, campanili e divisioni, quindi con una fragilità identitaria comune e dove invece le identità locali – dalla famiglia alle mafie, con un’idea di spirito civico che c’è più o meno, a seconda delle zone geografiche – restano più forti dello Stato. Questo rende l’identità italiana più debole».

Ma di fronte a certe prese di posizione della Comunità europea per questioni enogastronomiche, l’identità nazionale appare solida.
«Quella c’è, nei fatti, anche per ragioni banalmente economiche. Perfino il più anti-italiano del mondo quando vede il “Parmesan” o quelle contraffazioni dei nostri prodotti si innervosisce, per cui è comprensibile l’atteggiamento di rivendicazione dei nostri prodotti e della qualità. Non credo ci sia una diversità di sguardo delle politiche rispetto a questo tema».

A proposito di enogastronomia, conosce il territorio delle Langhe?
«Ci sono venuto per due o tre anni in camper con i miei genitori, ma ero un ragazzino. Ovviamente accadeva nella stagione autunnale».

Ama di più la formula dell’attualità via radio o delle storie in tv?
«Sono sincero: mi divertono tutte e due proprio perché sono molto diverse l’una dall’altra».
“Quante Storie” parte sempre da un libro per affrontare molteplici argomenti.
«Il famoso sguardo culturale sull’attualità: si prende un libro perché può essere lo strumento per uno sguardo diverso, obliquo, originale su questioni di attualità. E non a caso noi trattiamo principalmente saggi, perché il saggio si adatta bene».

“Radio anch’io” è anche un osservatorio privilegiato sulla classe politica attuale. Come la vede?
«C’è da dire che dopo la riforma i parlamentari sono molto meno e forse complessivamente, anche per un mero fattore numerico, si trova minore qualità. Devo dire che nel tempo delle legislature e dei parlamenti degli ultimi quindici anni, dal punto di vista della qualità professionale, c’è stato forse un ringiovanimento e più parità di genere, però non so quanta più competenza. Le carriere politiche sono state erose dalla buriana di inizio anni ’90, quelli che vivono di politica – che significa anche acquisire competenze – sono sempre meno e quindi diminuisce anche la conoscenza della dinamica parlamentare».

Lei ha sempre un approccio equilibrato. Come fa?
«Ci provo, è temperamento. Vengo da una famiglia legata al mondo gesuitico, da una scuola di cattolici irlandesi, quindi forse questa caratteristica l’ho un po’ introiettata. Come indole sono molto diplomatico. Un mio vecchio direttore di RadioTre, Marino Sinibaldi, mi chiamava “il Conte zio” dei “Promessi sposi”… che però è sbagliato per un giornalista. Io cerco di essere, non dico un giornalista della Bbc, ma comunque asciutto e diretto, però conservando la civiltà di un dibattito, di una conversazione. Questo è il principio che cerco di proteggere» .

 

CHI È

Giornalista nato a Roma il 30 gennaio 1967, è conduttore radiofonico e televisivo oltre che
saggista. Voce profonda e carismatica, attualmente conduce “Radio anch’io” e, in tv, le trasmissioni “Quante storie” e “Rebus” (questa assieme a Corrado Augias) su Rai3

COSA HA FATTO

È entrato in Rai con un concorso nel dicembre del 1996. Ha lavorato al Giornale Radio Rai, a Radio 1, dal 2010 al 2014 a Radio 3, dal 2014 nuovamente a Radio 1. Ha condotto “Il baco del millennio” e “Tutta la città ne parla”, su Radio 3

COSA FA

Fuori dal mondo radiotelevisivo tiene lezioni, master e seminari sul giornalismo in diverse università. Ha scritto: “Esistono gli italiani? Indagine su una identità fragile” edito da RaiLibri