Da dove cominciare? Dov’è il bandolo per raccontare di questa compagnia di duri e puri nata a Ravenna quarant’anni fa? Loro sono Marco Martinelli, Ermanna Montanari, Luigi Dadina e Marcella Nonni, fondatori di quel Teatro delle Albe che di lì a poco avrebbe cooptato tre griots senegalesi incontrati sul litorale romagnolo, tra cui Mandiaye N’Diaye che sarebbe divenuto “colonna africana” della rinnovata compagnia. E il meticciato nella più ampia accezione possibile è tuttora la cifra del loro percorso, quella fertile contaminazione di lingue, dialetti, culture che ha identificato le Albe fin dal primo spettacolo, “Ruh. Romagna più Africa uguale – 1988”. E allora partiamo dalla Romagna, il cuore pulsante che oggi, più che mai, fa battere il nostro.
Martinelli, se penso al vostro manifesto incentrato sulla “natura asinina” di chi possiede (suo malgrado?) orecchie così grandi da essere condannato ad ascoltare tutti i lamenti del mondo, sorge spontanea la domanda: cosa sentono oggi le vostre orecchie?
«Sentono quello che hanno sempre sentito: l’umanità in sofferenza da sempre, perché non ci sono epoche d’oro ed epoche infelici. La differenza rispetto ai secoli scorsi è che noi, oggi, stiamo distruggendo il pianeta. Le nostre orecchie sono quelle di Greta Thunberg, di Papa Francesco, di tutti gli attivisti che nel mondo combattono perché questa terra meravigliosa che abitiamo non venga avvelenata».
Restando in Romagna, la vostra Ravenna sembra essere incolume.
«Miracolosamente il centro storico è salvo, i teatri, le basiliche. Ho i brividi se penso a cosa potrebbe succedere. Ma le campagne sono allagate e a Lugo, a pochi chilometri da noi, il Teatro Rossini, appena restaurato, è completamente inondato».
Cosa la fa arrabbiare di più?
«Il fatto che la politica, di destra e di sinistra, finga di non vedere e non capire. Come si fa a non riconoscere le responsabilità, a non vedere la negligenza, ad avere gli occhi bendati? Come si fa a liquidare il problema come se fosse colpa della natura e basta, dicendo semplicemente “non è mai piovuto così tanto?”».
In due spettacoli recenti, “Saluti da Brescello” e “Va’ pensiero”, avete preso duramente posizione contro le infiltrazioni di mafia e ‘ndrangheta in regione.
«E ci siamo anche presi una denuncia per diffamazione dall’ex sindaco di Brescello, siamo finiti in Tribunale e siamo stati assolti: nessuna diffamazione, la nostra era opera artistica con componenti satiriche. La verità è che non riusciamo a tacere di fronte alla realtà e purtroppo certe “dinamiche” riguardano anche la nostra amatissima regione. E non siamo d’accordo con chi minimizza considerandoli fenomeni isolati».
Ma il teatro può incidere in modo sostanziale?
«Il teatro è una sentinella che crea bellezza ma non è mai separata da urgenze politiche e sociali. Non si può separare l’arte dalla nostra umanità che dev’essere sempre ricerca di verità e giustizia».
Tra “Saluti da Brescello” e “Va’ pensiero” c’è una sorta di evoluzione, come se dalla cronaca si procedesse verso una maggiore astrazione.
«Infatti nel primo spettacolo si facevano nomi e cognomi, nel secondo siamo partiti dallo stesso nucleo ma per lavorare su un mosaico più ampio e i personaggi erano trasfigurati. Il sindaco, per esempio, è confluito nella figura della Zarina, interpretata da Ermanna. Un affresco politico e psichico che riguardava il cuore della corruzione e quindi il nostro cuore corrotto».
A lei e a Ermanna sono dedicati due capitoli di “Pianura”, il libro di Marco Belpoliti edito da Einaudi dedicato alla pianura padana e ai suoi cantori. Cos’è per lei la pianura?
«La pianura ha segnato la nostra storia, è la nostra terra, la nostra lingua, le nostre radici. Ma è anche il luogo da cui partire per guardare oltre. Come gli alberi, le radici ben piantate a terra, ma con i rami rivolti al mondo e al cielo».
E voi non solo avete inglobato attori africani, ma in Africa siete di casa. Ricordo “Ubu buur”, dall’”Ubu re” di Alfred Jarry, nato in Senegal con un coro di adolescenti senegalesi e poi portato al Napoli Teatro Festival. Ora ci racconta invece del progetto recente a Nairobi dove avete portato nientemeno che Dante?
«Si tratta di un film di quaranta minuti girato in un slum con centocinquanta adolescenti, “The sky over Kibera”. Un progetto nel segno della non scuola, dove il teatro è territorio di gioco, non materia di insegnamento».
Ci spieghi meglio cos’è per voi la non scuola.
«L’idea è nata nei primi anni ’90, con i primi laboratori nei licei di Ravenna, quando ancora non si chiamava così. Il termine lo dobbiamo a Cristina Ventrucci e indica qualcosa che sfugge all’accoppiamento naturalmente mostruoso tra teatro e scuola, stranieri l’uno all’altro poiché il teatro è palestra di umanità selvatica e ribaltata, dove si diventa quello che non si è; la scuola è il grande teatro della gerarchia e della correttezza».
E la vostra scommessa è farli convivere. Magari persino resuscitando Aristofane.
«Ma solo dopo averlo fatto a pezzi. Il gioco è proprio l’amorevole massacro della tradizione. Non si tratta infatti di mettere in scena, ma di mettere in vita i testi antichi: non di recitare Aristofane ma di resuscitarlo, appunto. La tecnica della resurrezione parte dal fare a pezzi, dal disossare».
Aristofane è un autore di riferimento già dai tempi di “Arrevuoto”, progetto di pedagogia teatrale nato a Napoli nel 2004 e continua a esserlo ora con “AcarnesiStop the war!”, che sabato scorso 27 maggio ha aperto la stagione del Teatro Grande di Pompei.
«È il primo appuntamento del triennio 2023-2025 dedicato ad Aristofane e ha visto in scena ottanta studenti delle scuole del territorio vesuviano. L’intento è anche coinvolgere il territorio e le aree limitrofe, meta turistica ma ancora poco sentite e vissute dai suoi abitanti».
La non scuola può arrivare anche agli adulti?
«Certo. L’uscita dall’alveo adolescenziale e il coinvolgimento del pubblico adulto è quello che abbiamo fatto in questi ultimi anni con le “Chiamate Pubbliche” nel segno di Dante, a Ravenna, a Matera e anche all’estero. Creare un cortocircuito tra artisti e pubblico di generazioni diverse in modo che ognuno possa mettere in campo la propria sapienza, sia come téchne sia come umanità ed esperienza di vita».
La non scuola continua a riscuotere il successo che merita ma senza le Albe sarebbe possibile?
«Noi ci contiamo. Nel tempo abbiamo creato tante piccole tribù che si ispirano ai principi della non scuola. Un contagio speriamo benefico, come la peste di cui parlava Artaud».
Chiudiamo con una nota al femminile: cosa guida la scelta dei personaggi interpretati da Ermanna, frutto di realtà o di invenzione ma tutte estreme e combattive? Penso a Rosvita, Rosa Luxemburg, Aung San Suu Kyi, o la madre che parla dal fondo di un pozzo del recente spettacolo omonimo, scritto da Marco.
«L’essere donne che “si mettono di traverso alla Storia”, per usare un’espressione di Ermanna. La Storia corre da millenni nel segno dei guerrieri, è frutto di una cultura violenta e patriarcale: le donne, quando non sono asservite, mistiche o politiche come quelle che ha citato, indicano un’altra strada. L’aveva capito, già sette secoli fa, Dante Alighieri, prendendo Beatrice come guida sapiente, facendosi “fedele d’Amore”».
Articolo a cura di Alessandra Bernocco