Nel 1957 , quando l’atomica spaventava il mondo, Henry Kissinger scrisse “Armi nucleari e politica estera”. Due anni fa ha pubblicato “L’intelligenza artificiale e il futuro dell’uomo”. Forse ha ragione il figlio nell’indicare nella curiosità vivissima il segreto della longevità: cento anni appena festeggiati non da icona vivente di diplomazia e politica ma da studioso, saggista, consulente attualissimo.
Storia straordinaria la sua, self made man in terra straniera, bambino in fuga con la famiglia d’origine ebraica dalla Germania in seguito alle persecuzioni antisemite. Si chiama Heinz, diventa Henry, e impara l’inglese alla serali, lavorando di giorno come operaio. Alle serali frequenta anche il City college di Washington, intanto guadagnandosi il pane in una fabbrica di spazzole e poi dentro un ufficio postale. Ottiene la cittadinanza americana quando parte per la guerra, inviato come interprete in Germania accanto a un comandante che stupisce per brillantezza e praticità: così prezioso nell’aiutarlo a riorganizzare l’amministrazione della città di Krefeld, allo sbando dopo la fuga dei nazisti, da meritare la promozione a sergente. L’esercito, finita la guerra, gli offre di rimanere come insegnante civile, ma preferisce completare gli studi iscrivendosi ad Harvard dove ottiene la laurea e inizia la carriera accademica. È l’incontro con il miliardario Rockfeller ad aprirgli le porte della politica, affidandogli la sua Fondazione e mettendolo in contatto con il presidente Eisenhower, cui è legatissimo. Iniziano così i rapporti di consulenza per la politica estera con la Casa Bianca, estesi a Kennedy e Johnson e fortissimi con Nixon, soprattutto, e Ford, sotto i quali fu segretario di Stato e consigliere per la sicurezza.
A distinguerlo, e farne un’icona, un nuovo metodo spregiudicato e interventista, non avulso da interventi militari, che gli regala prestigio internazionale: la sua realpolitik, in fondo semplice, prevede che gli interessi concreti d’una Nazione, nelle relazioni internazionali, debbano essere anteposti al rispetto di ideologie e principi.
Kissinger è determinante per composizione del conflitto in Vietnam, ma ha un ruolo di sostegno nel golpe militare che porta Pinochet al potere in Cile. Personaggio controverso, divide perfino la giuria del Nobel: due membri si dimettono quando gli viene conferito quello per la pace. Indenne al Watergate e in sella con Ford, esce di scena con il democratico Carter, mantenendo però, oltre gli incarichi ufficiali, un ruolo nevralgico. Geniale per gli ammiratori, cinico per i detrattori, ricordato da una parte per la distensione con l’Urss, le relazioni riaperte con la Cina e la pace in Vietnam, dall’altra per i bombardamenti in Cambogia o il sangue della rivoluzione cilena. Guerra e negoziato scandiscono la sua politica, consentendo di affrontare momenti delicatissimi, però, osservano i kissingeriani, la guerra è limitata e il negoziato permanente.
A cento anni osserva ancora il mondo, è un po’ curvo e lento ma acuto e lucido, attento e influente, interessato all’intelligenza artificiale come alla guerra in Ucraina, semplicemente ancora in sella. Già, perché a Oriana Fallaci, autrice d’una storica intervista, spiegò così il suo successo: «Ho sempre agito da solo e agli americani è piaciuto. A loro piace l’uomo che entra in città solitario a cavallo, come nei western».
Il segreto della longevità
Henry Kissinger ha compiuto 100 anni. E scrive d’intelligenza artificiale come negli anni Cinquanta di armi nucleari. La curiosità ferma il tempo e cristallizza il carisma: un secolo in prima linea tra politica, diplomazia e contraddizioni