Le parole della Langa. La tradizione, la forza di una lingua che contiene in sé educazione e formazione, un modo di fare, pensare e lavorare unico nel suo genere. Un microcosmo che ha dato vita agli “ancalau”, espressione che designa coloro che andando oltre la loro naturale ritrosia osano, inventano, creano, dando impulso a imprese e idee capaci di creare economia e lavoro. Anche quest’anno alle parole della Langa il Premio Ancalau (di cui IDEA è media partner) dedicherà tempo e spazio per raccontare ai visitatori che accorreranno il 18 giugno a Bosia, le imprese e le azioni degli ancalau che fecero queste terre. E poiché quest’anno il tema del Premio è la cucina tradizionale di Langa, al piemontese nel piatto e nel bicchiere sarà dedicata la performance dell’attore albese Paolo Tibaldi. Lo scenario sarà quello del “boschetto degli alberi seduti”, un luogo incantato trasformato in discarica dall’incuria dell’uomo e riportato alla luce dalla volontà del sindaco di Bosia Ettore Secco e da alcuni volontari. Qui, sin dagli esordi nel 2014, il premio Ancalau ospita la performance dell’attore Paolo Tibaldi dedicata alla lingua piemontese. Classe 1989, attore di teatro, cinema e tv, ma anche regista, Tibaldi è conosciuto anche per il grande amore per la sua terra e la letteratura fenogliana.
Come nasce la collaborazione con Ancalau?
«Sono stato chiamato da Silvio che, in occasione del premio che sarebbe stato assegnato a Oscar Farinetti, aveva piacere leggessi l’incipit de “La Malora”, scritto da Fenoglio nel 1954, anno di nascita di Farinetti. Ogni anno c’è stata un’evoluzione, sono stato presentatore, creatore e portatore di contenuti. Elogio Silvio, che ha una visione delle cose veramente a lunga gittata e individua le caratteristiche delle persone anche grazie alla sua esperienza lavorativa».
Quest’anno il Premio è dedicato alla cucina tradizionale di Langa e lei affronterà il tema del piemontese nel piatto e nel bicchiere. Cosa succederà, il 18 giugno, nel boschetto degli alberi seduti?
«È un ambiente che si presta molto alla narrazione e, come mi piace sempre dire, laddove esiste una società umana, si manifesta lo spirito del drammaturgo e il racconto può avvenire ovunque: in metropolitana, in un bosco, a tavola. Il cibo è stato educazione nella società contadina: un tempo si richiamava la fame nell’Alta Langa, ora ci vengono a mangiare. Ci sono piatti e bevande piemontesi che non sono solo alimentazione fisica, ma un’avventura sociale e ingegnosa. Il Piemonte vanta piatti poveri, non perché sono “da poveri”, ma perché sono fatti con ingredienti poveri. Esiste una cucina borghese, nobile e povera come il “caponèt”, una foglia di cavolo o zucca ripiena degli avanzi del giorno prima. Borghese, come la bagna cauda con l’acciuga. Nobile, come il grissino inventato dal fornaio di corte per il futuro re Vittorio Amedeo II di Savoia cagionevole di salute. Citerò Fenoglio, che parla del nostro mangiare anche come medicina. Un’ora in cui leggerò anche prosa, e dialogherò con il pubblico».
Cosa significa, per lei, questa terra?
«È il luogo dove ho avuto la fortuna di nascere, essendo del 1989 e non del ‘46. Poi c’è l’ostinazione di voler rimanere, nonostante le necessità di viaggiare. La necessità di raccontarla da dentro. Perché è una terra non solo agricola, sociale, civile ma anche letteraria. È una terra antichissima, però solo negli anni ‘60 e ‘70 ha iniziato ad avere la letteratura più bella che si possa immaginare. Pavese, Fenoglio, Lagorio, Arpino, Revelli… Poi mi ha segnato il lavoro sulla lingua con la Compagnia del Teatro di Sinio. Ogni lingua che si conosce è come un cuore in più, perché dietro c’è la storia di una popolazione. A capo di tutto ci sono le persone che hanno vissuto questa terra, che hanno faticato una vita senza mai vedere il mare, coloro che mi hanno raccontato le loro esperienze. La sento come una mia storia ancestrale».
A tal proposito, perché e come nasce la rubrica “Abitare il Piemontese”?
«Nel 2017, dalla collaborazione con il Teatro di Sinio. Il pretesto è partire da una parola per parlare della tradizione popolare. Si chiama abitare e non parlare perché vuol dire mangiare, sognare, soffrire, cantare in piemontese e, alla fine, parlare. Le parole ci educano e siamo educati in un certo modo perché sono state usate certe parole, come “tenere da conto”. Ci sono poi parole come perfetto o prego che non esistono in piemontese e sono sostituite da vere parafrasi. La rubrica racconta tutto questo, con il grande vantaggio di non dover inventare nulla perché tutto è documentato nei libri o nelle persone».
Nel suo curriculum sono presenti numerosi lavori su Beppe Fenoglio. Cosa l’ha spinta in questo percorso di ricerca?
«Recentemente ho debuttato con uno spettacolo sul bambino nei racconti di Beppe Fenoglio. Sento quelle parole e immagini correre nel sangue non solo per i luoghi che riconosco e sono vicini, ma per la ricerca della parola che mi aiuta a riconoscere questo territorio letterario e filosofico che Fenoglio usa per raccontare l’archetipo di tutta l’umanità. Fenoglio è morto nel ‘63, ma le dinamiche e i personaggi che mostra valgono in ogni tempo e in ogni luogo. Non sono il Piemonte ma il mondo».
Lei è attore di teatro, cinema, tv, regista. Da dove nasce la passione per il palcoscenico?
«Il mio debutto è avvenuto proprio a Bosia nel 2009, con il Teatro di Sinio. Fu la prima esperienza teatrale dopo le superiori. Ma la mia passione nasce a 5 anni in uno spettacolo teatrale della scuola materna in cui avevo una sola battuta “Oh sì, bella idea!”. Il percorso è continuato alle superiori: scelsi ragioneria ad Alba per frequentare un valido laboratorio con cui portai in scena uno spettacolo dedicato al regista albese Guido Sacerdote, ideatore con Antonello Falqui di “Studio Uno”. Ho iniziato a lavorare in un’azienda vitivinicola ma “qualcosa” mancava. Così ho proseguito gli studi (Teatro delle Dieci di Torino, Scuola Paolo Grassi di Milano, ndr). Il lavoro che faccio, come attore e regista, deve sempre essere veicolo di messaggio, altrimenti resta fine a se stesso. Mi sono “ancalato”, ostinato in quello che faccio: calarsi, e giocare la partita».