Home Articoli Rivista Idea «Via l’individualismo: appassioniamoci dei problemi di tutti»

«Via l’individualismo: appassioniamoci dei problemi di tutti»

IDEA a tu per tu con l’attrice Daniela Marra che in “Esterno notte” interpreta Adriana Faranda, la brigatista coinvolta nel rapimento Moro

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«Un personaggio fem­minile di cui Mar­co Bellocchio ha colto pienamente il dramma interiore, divenuto il centro dello sviluppo di ogni scena che la riguarda». Il personaggio è Adriana Faranda e a parlare è Daniela Marra, intensissima interprete della brigatista ros­sa in “Esterno notte”, il se­condo film di Bellocchio sul ra­pimento di Aldo Moro, do­po “Buongiorno notte”. Un ruolo difficile, impegnativo, nel quale il conflitto tra la propria coscienza silenziata e l’ub­bidienza silenziosa alla li­nea è compresso in gesti trattenuti, sguardi ferini, ripensamenti strazianti e tentativi inascoltati di persuasione.
Daniela, Adriana Faranda non è un’eroina, ma resta pur sem­­pre colei che avrebbe vo­lu­to risparmiare la vita a Mo­ro. Come si è avvicinata a que­sta donna?
«Con molto pudore. È una don­na che ha una colpa in­cancellabile e che ha compiuto il suo percorso giudiziario. Bellocchio l’ha incontrata, io ho voluto cercare una distanza interpretativa e pur essendomi molto documentata, ho cercato di restituire soprattutto l’emotività di una donna che ha rinunciato alla propria individualità per abbracciare una scelta collettiva, che era quella della lotta armata».
Che suggerimenti le ha dato Bellocchio?
«Ci ha dotati di una sceneggiatura impeccabile, nella quale ci si poteva muovere con si­curezza, facilitando molto la nostra interpretazione».
Leggendo qua e là, ascoltando le interviste, emerge una figura di donna più intelligente rispetto ai suoi compagni. Mi sbaglio?
«E anche più colta. È stata la prima a rendersi conto che Moro vivo sarebbe stato un messaggio politico molto più forte e significativo per contrastare la Dc».
Cosa ricorda di quel periodo, anche mediato da racconti e documenti?
«Io sono nata sei anni dopo e al liceo non si arriva certo a studiare gli “anni di piombo”. La prima volta in cui ho sentito l’esigenza di approfondire quel pezzo di storia è stata do­po aver visto “Buongiorno not­­­­­te”: avevo 19 anni ed è sta­­­­­­­­to un grande stimolo. Già lì si intuiva la possibilità che Fa­randa, il cui carattere confluiva nel personaggio di Chia­­ra in­terpretato da Maya Sansa, fos­se contraria all’uccisione».
Sul set si parlava di Moro o… di cosa avrebbe offerto il ce­stino del pranzo?
«Si parlava di Moro e anche di quel periodo. La cosa bella del nostro mestiere è proprio quella: potersi confrontare ol­treché con il regista anche con gli altri attori e con le stesse comparse. Fabrizio Gi­funi, riguardo al caso Moro, ha una cultura immensa e sul set c’erano pure tante comparse di una certa età che quel pe­riodo lo avevano vissuto. Una signora romana mi disse che in quegli anni c’era tanta paura ma ci si riconosceva in un gruppo, c’era un senso di appartenenza molto sentito, si esisteva come comunità. Que­sto essere accesi da questioni che ci riguardano tutti mi affascina; oggi siamo troppo individualisti».
E per questo che si è molto occupata di teatro sociale?
«Sono cresciuta in una Ca­labria in cui i problemi sul territorio erano evidenti. E questo, insieme allo studio (Da­niela è laureata in Scienze Storiche del Territorio e della Coo­pe­ra­zione Internazionale, ndr), ti co­stringe a stare con i piedi per terra. D’altra parte ti fornisce anche il nutrimento da rielaborare come attore. Al di là della problematicità o me­no del dato di realtà».
Quali sono le esperienze più significative nel merito?
«Un laboratorio teatrale per ra­gazzi sull’Aspromonte, un’e­­­sperienza interessante ma anche molto dura che a un certo punto è stato necessario interrompere. E poi un progetto di “cohousing” (“coa­bitazione solidale”) con il Tea­tro Stabile di Torino che coinvolgeva attori e danzatori. Ab­­bia­mo realizzato una performance che prendeva le mos­se da un’esperienza di condivisione e si chiamava “Wel­co­me”. Tori­no è molto avanti da questo punto di vista».
Esattamente in cosa consiste il “cohousing”?
«Nella condivisione di spazi comuni all’interno di case popolari che prevedono, se il caso, la presenza di mediatori e assistenti sociali che favoriscono il contatto e la conoscenza reciproca tra persone di etnie diverse».
Etnia, una parola tornata in primo piano…
«Eh, io sono calabrese e ho la fortuna di appartenere a quella parte di Calabria che accoglie. La vicenda di Cutro racconta tanto di quello che si fa e non si fa. Io non riesco a non pensare: “e se fossi io, se capitasse a me?”».
E dalla Calabria a Torino dove ha frequentato la scuola del Tea­tro Stabile: com’è andata?
«La parentesi più gioiosa della mia vita. Torino era al suo mas­­simo splendore dopo le Olimpiadi invernali, ci muovevamo tra concerti, teatro, feste e tante occasioni di ritrovo. Una città accogliente e facile da vivere, con tante iso­le pedonali, dove le cose funzionano».
E tra una festa e l’altra, la scuola del Teatro Stabile.
«Importantissima. Un parterre di docenti incredibile: Fran­ca Nuti, Maria Con­sagra, Claudia Gian­notti, Lu­ca Ron­coni, venuto due o tre volte a farci visita e, so­prattutto, Mau­ro Avo­ga­dro, che la dirigeva».
Ottimo attore e regista e gran pedagogo, Avogadro.
«Una guida attenta che ci costringeva a ragionare mol­tis­­simo. Ci ha trasmesso gli stru­menti da utilizzare in qualsiasi lavoro avesse a che fare con la recitazione: utili di fronte a un buon testo e ancora di più quando il testo o la sce­neggiatura sono scritti un po’ troppo in velocità».
Intende dire che ci sono sceneggiature scritte male?
«A volte, l’industria cinema­to­­grafica e televisiva si trova a dover lavorare in condizioni di ristrettezza, anche di tempi, e noi ci troviamo di fron­­te sceneggiature non sem­­­pre revisionate».
Mi sa che è stata diplomatica, ma non insisto. Mi dica invece di quella volta con Peter Greenaway.
«Un’esperienza bella, caotica, divertentissima. Greenaway è un visionario ed era stato chia­­mato a dirigere il progetto di valorizzazione della Reg­gia di Venaria Reale, “Ri­po­polare la Reggia”, un “ta­bleau vi­vant” in cui noi, che frequentavamo ancora la scuo­la, eravamo comparse. È stato come assistere alla follia creativa in atto».
Dalla follia creativa alla misera realtà intorno alla quale è nata Amleta, associazione fon­­data qualche anno fa da un gruppo di attrici con lo sco­­po di contrastare la disparità e la violenza di genere nel mondo dello spettacolo.
«Le seguo da vicino e so quanto scrupolosamente la­vorino. Amleta rappresenta un tassello fondamentale per un mi­glio­ramento sociale più am­pio, che non riguarda solo le attrici ma tutte le donne e anche gli uomini, visto che la molestia è indipendente dal sesso. Aver reso possibile la via della denuncia senza sentirsi giudicate ma comprese è un passo avanti molto importante, se si considera la difficoltà con cui molte donne (e non solo donne) sono finora riuscite a parlare pubblicamente di traumi e violenze subite».
So che non ha nomea di essere un’estroversa, cosa la urta maggiormente?
«La violenza e l’invadenza de­gli spazi. Un modo paradossale di ovviare all’isolamento che non cerca la giusta misura nel relazionarsi con l’altro in ma­niera sana. C’è poca gradualità: un esempio banale è che non ci si dà più del lei. Per­ché? Perché non si rispetta quel territorio neutro in cui due sconosciuti si muovono, un territorio che dovrebbe es­sere la base e il punto di partenza per conoscersi meglio».
E poi vediamo…
«E poi vediamo».

Articolo a cura di Alessandra Bernocco