Difficile liberarsi dalla musica. Difficile resistere al suo richiamo. Anche quando la parola sembra avere preso il sopravvento. Anche dopo incontri importanti, dirimenti per la carriera di un’attrice, come quelli con Vittorio Gassman, Mario Ferrero, Mario Missiroli, Arnoldo Foà. Maestri della scena che l’hanno voluta accanto, consacrando il suo ingresso nel teatro di prosa con tutti i crismi.
Ma il percorso di Clara Galante è cominciato con la musica e alla musica ritorna, ciclicamente, in forme diverse, ma sempre con lo stesso amore e la stessa necessità. D’altra parte, registi come Luca Ronconi e Federico Tiezzi, con cui ha lavorato diverse volte, si sono rivolti a lei ogni volta che nei loro spettacoli erano presenti il canto e la melodia.
Clara, dovesse spiegare la differenza tra recitare e cantare, dal punto di vista emotivo, cosa direbbe?
«Ogni volta che canto si accende qualcosa che con la sola recitazione resta in silenzio, non è lo stesso sognare. Cantare, per me, è come pregare, significa esprimersi più intensamente attraverso le parti più profonde di me».
Ha studiato canto lirico e jazz ma come ascoltatrice cosa sceglie?
«Sono onnivora. Amo molto Vivaldi. E Bach. Mi sento un po’ come le sue fughe: aperture che ritornano sempre da dove sono partite, appena leggermente modificate».
E un po’ modificato è uno dei suoi spettacoli cult, ormai repertorio: la “Medea” in forma di melologo, che quest’anno compie dieci anni di vita.
«Uno spettacolo nato con orchestra al Teatro Verdi di Trieste, dal quale non ho voluto staccarmi. La versione ora in repertorio è una riduzione per pianoforte, in cui è la musica a sollevare accadimenti e intenzioni, restituendo la vicenda come una sorta di astrazione».
Quindi una Medea diversa da quella di Euripide e di Seneca e anche dalle altre Medee che la drammaturgia ci ha consegnato.
«È una Medea che torna sul luogo e ripercorre nella sua mente la sua storia, evocando a sé gli altri personaggi come fossero fantasmi che le si presentano di fronte. In questa visione c’è un’esplorazione della follia che può essere lucida ma che ti travolge».
Prevale la dimensione di maga e stratega o di donna tradita?
«Nella versione con orchestra prevaleva la componente femminile tradita, esiliata, l’appartenere a un mondo opposto a quello maschile che ha la meglio. Qui, invece, più la interpreto più mi rendo conto che è necessario trovare un equilibrio tra la donna con la sua propria umanità e l’archetipo. Oggi parlare di Medea significa aprire una voragine: l’unico modo in cui mi spiego l’entità di questo atto è l’elemento sovrannaturale da una parte e la malattia mentale dall’altra, che purtroppo è ancora tabù. Rifletterci sarebbe utile anche per noi che ci diciamo “sani”».
Labile il confine tra i cosiddetti sani e i malati di mente.
«Io credo che quando il dolore è insostenibile possa sfociare nella follia e, quindi, anche nella violenza».
Non c’è via di uscita?
«Sì, se si è in grado di trasfigurare il dolore. Pensiamo, per esempio, a quella grande figura poetica che è Alda Merini, capace di scendere nell’Ade della sua psiche per poi risalire e riportarsi, guarita, alla luce».
E in questa discesa nell’Ade lei vi ravvisa un elemento sovrannaturale?
«L’elemento sovrannaturale fa parte di me e prima o poi lo affronterò direttamente».
Addirittura?
«Ho un progetto nel cassetto che riguarda una figura medianica del passato».
Allora mi viene subito in mente la Pizia, sacerdotessa di Apollo, la voce del dio che lei ha interpretato nell’“Orestea”.
«Infatti la Pizia è molto più di un attraversamento vocale, è espressione di un mistero e, quindi, di una profondità che ha a che fare con l’elemento sovrannaturale, mentre la vocalità è una tecnica e, in quanto tale, si esprime attraverso strumenti, ma il mio modo di recitare è anche giocare alla medianità e con certi personaggi è possibile».
Ma non con tutti?
«In realtà sì, perché l’attore fa credere reale ciò che non lo è. In questo senso è un mago, cioè crea qualcosa che prima non c’era e lo fa con un lavoro di immaginazione, parola nella quale è compresa la parola “magia”. Io mi sento vicina a Sherazade de “Le mille e una notte” che inventa storie e personaggi per salvare la situazione. Credo che soltanto l’immaginazione ci possa salvare da questo momento buio».
Non le sembra un po’ elitario come metodo per salvarci da questo buio?
«Non ne posseggo un altro ma nel mio modo di comunicare c’è la volontà di arrivare a tutti, non solo alla casta e non mi piace l’idea di un teatro di nicchia».
Per questo si è anche data alla radio? Ci racconta del programma che sta registrando per la radio svizzero-italiana?
«Si intitola “Biscrome”. Sono dieci puntate in cui racconto storie che anticipano i brani cantati eseguiti dal vivo, accompagnati dalla chitarra di Claudio Farinone, anche arrangiatore. Canzoni d’amore e di mala, le prime repertorio della nostra storia, dagli anni Quaranta fino a Lucio Dalla, uno dei miei punti di riferimento, le altre sono pezzi scritti da Pasolini, Ennio Morricone, Fiorenzo Carpi, Giorgio Strehler. Canzoni che raccontano di un’umanità disperata, ladri, prostitute, carcerati, nate negli anni Cinquanta come evoluzione della canzone popolare che diventa magicamente d’autore».
Me ne cita qualcuna?
«“Mamì”, “Cristo al Mandrione”, “Il valzer della toppa”. Tutti brani molto attinenti al teatro in cui ho potuto liberare codici di interpretazione diversi. Mi sono molto divertita».
Di Dalla cosa canta?
«“Tu non mi basti mai”. Dalla è un artista a tutto tondo, sapeva trasformarsi. Era la follia, la libertà, la spiritualità, l’esser fanciullo. E possedeva la capacità di giocare pur restando serio, senza mai apparire serioso».
Lo scorso anno ha partecipato all’Earthink Festival, rassegna teatrale torinese dedicata ad ambiente e sostenibilità, con “Secret Life”, un testo dell’inglese David Byrne per lo spettacolo diretto da Manfredi Rutelli. Qual è il suo punto di vista a riguardo e cosa fa personalmente per contribuire alla sostenibilità?
«Lo spettacolo riflette su molte cose, una su tutte se l’uomo sia veramente in grado di evolvere oppure se vada verso l’autodistruzione in nome del progresso, che però non è evoluzione. La parola stessa ci invita a responsabilizzarci, a sostenere il nostro sviluppo senza danneggiare ciò che ci circonda e contiene. Lo spazio è fondamentale, ci permettere di esistere. Personalmente, cerco di utilizzare davvero le cose, non sprecandole. Sono attenta, sì, e si può fare sempre di più».
Qual è il suo rapporto con Torino?
«Una città che mi ha accolta benissimo, già quando avevo fatto parte della Compagnia dei Giovani con Gabriele Lavia. Elegante, vivace, dove vivrei volentieri».
È vero che la vedremo presto al cinema?
«Sì, in un film diretto da Pietro Castellitto, ma adesso è ancora tutto top secret».
Articolo a cura di Alessandra Bernocco