Renzo Ferrero, professione architetto. Il pubblico televisivo lo inquadra subito come il marito della più celebre prof della prima serata di Rai Uno, Camilla, al secolo Veronica Pivetti, protagonista di “Provaci ancora Prof!”, la serie girata tra Roma e Torino e durata ben sette stagioni. Lui è Enzo Decaro, classe ’58, uomo di spettacolo a tutto campo, sulla ribalta dagli anni Settanta, quando con Massimo Troisi e Lello Arena si esibiva sui palcoscenici napoletani che oggi chiameremmo “off”. Altri tempi. Benché Napoli, la sua città, ritorni ciclicamente nel suo percorso, interlocutrice animata e feconda, accogliente sempre, disposta e predisposta alla contaminazione.
Decaro, parliamo dello spettacolo con cui debutterete domani (venerdì 30), in prima assoluta, a Villa Floridiana, per il Campania Teatro Festival, un curioso matrimonio tra Molière e Luigi De Filippo, che a Napoli aveva ambientato la sua rivisitazione de “L’avaro”.
«Si intitola “L’avaro immaginario” ed è un viaggio sulle tracce di Molière, in cui proviamo a ripercorrere quel cammino salvifico che gli artisti napoletani affrontavano nel 600 alla volta di Parigi, quando la Francia accoglieva gli artisti e li inglobava».
Cosa intende per cammino salvifico?
«Nel Seicento la popolazione dell’Italia meridionale venne decimata dalla peste: fu un’ecatombe epocale dalla quale si cercò di reagire anche con l’arte. Quelli verso la Francia erano viaggi della speranza in cui c’era un reale scambio tra invenzioni da una parte e accoglienza dall’altra».
Oggi possiamo parlare di peste in senso metaforico?
«Eh, erano viaggi da cui non si poteva tornare indietro, percorsi pericolosi, la loro Libia alle spalle e l’unica speranza era essere accolti. Siamo stati migranti anche noi ma ce ne dimentichiamo».
Scaramouche e Pulcinella: due celebri migranti.
«Tiberio Fiorilli, l’inventore della maschera di Scaramuccia, attore contemporaneo di Molière, e Paolo Cinelli, che divenne Pulcinella perché i francesi lo chiamavano Polichinelle».
Cosa rappresenta Napoli per lei, oggi?
«Napoli è l’inevitabile, non solo un luogo fisico, con le sue luci e le sue ombre, ma un modo di essere. Invenzione, attenzione, accoglienza. E si può essere napoletani senza essere nati e vissuti a Napoli».
Ma questa storia dell’accoglienza napoletana non finisce per essere un po’ retorica?
«Io intendo il pensiero accogliente, cioè il pensiero che si ricorda di chi siamo stati. Che siamo figli della Magna Grecia».
Mi racconti della Napoli dei suoi esordi, quella vissuta assieme a Troisi e Lello Arena, quando vi chiamavate La smorfia.
«Negli anni Settanta Napoli era una fucina di talenti. Pensi soltanto a Roberto De Simone, ai Bennato, a Pino Daniele. C’era un fermento collettivo che si esprimeva in forme diverse, molto bello da vivere e ricordare. Giovani artisti che volevano dare un segno di esistere. Si sentiva la necessità di alleggerirsi, di uscire da una scatola vecchia, di cercare vibrazioni nuove».
E poi è arrivata la tv e tutto è cambiato…
«È cambiato solo quello che c’era intorno, noi non siamo cambiati. Nel nostro percorso non ci sono stati aggiustamenti. Avevamo più soldi, ci pagavano per fare quello che prima facevamo gratis e da cinque spettatori siamo passati a cinquemila. Erano grandi feste collettive».
E poi ecco il cinema. Il suo ingresso è stato da autore a 360 gradi con “Prima che sia troppo presto”, ambientato tra Napoli e la sede Nato di Bagnoli e si può dire che fece tutto lei: attore, sceneggiatore, musicista e regista. Sono più i vantaggi o le difficoltà?
«Dipende dal progetto. I vantaggi sono la maggiore possibilità di controllo e di verifica ma il contraddittorio e lo scambio sono sempre utili e belli. Quell’esperienza, in particolare, mi è servita per imparare professionalità diverse».
A proposito di contraddittorio, torniamo al trio della Smorfia. Litigavate spesso?
«Per niente. Avevamo tre personalità diversissime ma il confronto era costante e prevaleva sempre il bene comune. Allora non c’erano i… Come si chiamano quelli che seguono sui social?».
Followers.
«Ecco, noi eravamo i followers di noi stessi, in cerca della versione migliore per dar seguito a uno spunto».
Lei è stato la voce narrante del documentario di Giorgio Verdelli dedicato a Pino Daniele. Quando vi eravate conosciuti?
«La nostra è stata un’amicizia nata molto prima del successo e rimasta uguale nel tempo. Oggi mi fa piacere tornare agli inizi e rivalutare la sua poetica, perché Pino non è stato solo un grande musicista ma un autore di testi, di pensieri, un vero poeta».
Restiamo a Napoli con Mario Martone e Paolo Sorrentino con i quali ha lavorato in due film importanti: “L’amore molesto” e “È stata la mano di Dio”.
«Due maestri del cinema, differenti nel raccontare la città, perché la policromia di Napoli non si compie mai completamente ed è sempre in evoluzione, eppure entrambi portatori di una napoletanità simile, che non dà niente per scontato e cerca sempre nuovi orizzonti».
C’è un ruolo che non ha ancora interpretato e che le sta a cuore?
«Il ruolo per me dipende sempre dal progetto, mi metto al servizio del personaggio».
Come spettatore cosa sceglie?
«Scelgo film e spettacoli che mi lascino domande più che risposte, che offrano la possibilità di fare da specchio. I classici, anzitutto, che non per caso sono classici. L’“Odissea”, per esempio, un classico che ancora oggi ci pone domande necessarie, scomode, che ci aiutano a riflettere e speriamo anche a evolvere».
Articolo a cura di Alessandra Bernocco