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«Una volta per tutte mettiamo ordine alla nostra storia»

La direttrice del quotidiano La Nazione: «Racconto L’eccidio di San Terenzo Monti che toccò la mia famiglia: è un esempio di giustizia mancata che diventa trauma collettivo e impedisce una visione pacificata. La mia migliore amica è di Savigliano e mi ha fatto apprezzare i valori dei cuneesi»

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Una direttrice (uni­ca donna con tale ruolo nel panorama giornalistico nazionale) per più testate. Agne­se Pini dirige in­fatti La Nazione di Fi­renze assieme agli altri quotidiani del gruppo Monrif: Il Giorno, Il Resto del Carlino e il Quotidiano Na­zionale che li collega tutti, in aggiunta al nuovo inserto spor­tivo Qs. Ma Agnese Pini è anche scrittrice. In “Un autunno d’agosto” ha scritto di amore, guerra e at­tualità. «È la storia anche fa­migliare – ci di­ce – dell’eccidio nazifascista in quell’estate del 1944 segnata da stragi orrende lungo la li­nea gotica, in appena un mese e mezzo. Il 19 agosto a San Terenzo Monti, paesino della Lunigia­na, furono uccise 159 persone e tra queste la mia bisnonna lato materno, Pal­mira. Una storia che quindi ha forte rievocazione nel libro, perché faceva parte della co­stellazione dei rac­conti di guer­ra della mia infanzia. Un’atrocità che ha ricevuto un riconoscimento appena parziale, l’unico vero processo l’abbiamo avu­to solo negli anni 2000, ovvero 60 anni dopo. Il riconoscimento della nostra storia legata alle stragi tra ’43 e ’44 è stato parziale tanto da parte della politica che delle istituzioni».

Eppure rimane un fatto con cui ci dobbiamo ancora confrontare, restano i segni.
«Il punto è che abbiamo una memoria incompiuta sulle responsabilità di quel sangue civile. E la giustizia negata rap­presenta sempre un trauma che si somma al crimine. È un trauma collettivo, il trau­ma di una nazione che non è stato ancora colmato».

Questo cosa comporta?
«I morti per crimini di guerra tra il ’43 e il ’45 sono stati in Italia oltre 25mila, più o meno, a cui bisogna sommare i 40mila deportati mai tornati a casa e il numero va poi moltiplicato per i sopravvissuti, i parenti, le generazioni successive. E questa ferita aperta, oltre alla sete di giustizia, ha impedito di avere chiarezza sui perché, sui responsabili, ostacolando la costruzione di una memoria pacificata».

E anzi, il dibattito prosegue.
«Mentre la politica si interroga e si divide sulla chiarezza rispetto ai responsabili morali e materiali, c’è a monte un te­ma centrale cioè quello della giustizia negata, una questione che nel mio caso è legata a una famiglia, ma è collettivo, esteso dalle Alpi alla Sicilia, a quel Meridione che è stato cancellato dalla memoria storica mentre quasi la metà dei morti civili è stata registrata proprio da Napoli in giù».

Ha a che fare con l’identità italiana?
«Questo ha a che fare con l’incapacità che ancora persiste di poter fare la morale alla storia. Noi giornalisti sappiamo quanto sia complicato e ri­schioso fare la morale alla cronaca, va contro la buona regola dell’oggettività. La cronaca è piena di sfumature, nel caso della storia invece abbiamo il dovere di farne la morale perché ciò che ereditiamo a di­stanza di anni, ci consente di ca­pire cosa sia giusto o sbagliato, i buoni e cattivi».

E questo non è avvenuto?
«Se noi oggi siamo una grande democrazia, molto imperfetta ma grande, lo siamo in virtù della storia. E questo deve farci dire oggi senza ambiguità chi è dalla parte del bene e chi del male. Dopo anni ancora non abbiamo chiarezza, ma resistono troppi distinguo che il tribunale della storia non consente e che falsano la percezione com­plessiva».

Tanto che le nuove generazioni restano disorientate.
«Conta il significato che dia­mo a quella lontananza, se la storia
non è chiarita lascia messaggi sbagliati. Non so se sia un esempio corretto, ma guardiamo alla Francia: il 14 luglio festeggia unanimemente la Presa della Bastiglia e nessuno oggi mette in cattiva luce Robespierre, è assodato che la Rivoluzione sia stata di straordinaria importanza perché ha messo le fondamenta ideologiche delle democrazie contemporanee in Occidente e nessuno ne dibatte sui giornali. Da noi invece il 25 aprile scatena ancora dibattiti, ma non ha senso. Dovrebbe prevalere la morale della storia di chi ha combattuto per la Li­berazione, portando un regalo straordinario di pace, prosperità economica e libertà, quella democrazia che ci consente di criticare anche la stessa Repubblica. Questo passaggio non è stato ancora fatto».

Bisogna insistere e comunicare?
«Si, con rigore e memoria storica, dando evidenza intellettuale e distinguendo tra chi ha combattuto per il bene, da cui è nata la nostra democrazia, e chi per il lato cattivo che non si è materializzato. La percezione di questo poteva essere controversa in quegli anni ma oggi no, la democrazia la dobbiamo a chi 80 anni fa ha combattuto. Non si deve uscire dal campo della chiarezza».

Voltiamo pagina, lei ha appena ricevuto il Premio Marisa Bellisario.
«Significativo, perché di simboli si ha sempre bisogno. La storia dell’emancipazione fem­minile in Italia ha vita brevissima, fino ad ottant’anni fa le donne non votavano. Si­gnifica che non erano neppure cittadine. Ottant’anni nella storia umana sono appena un respiro, abbiamo visto un’accelerazione pazzesca sul pia­no dei diritti delle donne, ma ovviamente il percorso non è finito. Le donne fino a 60 anni fa non potevano partecipare ai concorsi pubblici. Ma ancora oggi in Italia non lavora la metà delle donne. Questo è un dato da paese sottosviluppato, non da seconda manifattura europea o da Paese membro del G7. E al sud va peggio: lavora solo una donna su tre. Numeri terribili. Noi donne abbiamo superato tante barriere, io cerco di fare la mia parte».

Come giudica le prime mosse di questo governo?
«C’è una forte attenzione rispetto al tema della maternità, da non confondere con quello della natalità che coinvolge entrambi i genitori. È positivo pensare a come agevolare le donne che vogliono avere una famiglia e lavorare, l’importante è non cadere in gabbie ideologiche fuori dal tempo».

Conosce il Cuneese?
«La mia più cara amica è di Savigliano, quindi ho frequentazione con l’accento e le caratteristiche tipiche delle vostre zone».

E le apprezza?
«Lei non sarebbe mia amica, altrimenti. Mi piace quella concretezza che non è mai cinica, mentre spesso il rischio è quello. Vedo invece un ide­a­lismo civico ed emozionale in questa concretezza cuneese che ho sempre ammirato molto. Noi toscani siamo meno concreti. Vedo una concretezza buona, basata su un forte idealismo, su temi come lavoro, famiglia, amore, rispetto. Tutte cose che ho imparato dalle mie frequentazioni amicali, e che mi piacciono moltissimo».

CHI È

Pare che a spingerla verso la carriera giornalistica sia stata la vicenda degli attentati dell’11
settembre 2001 e il successivo dibattito con gli interventi di opinionisti come Oriana Fallaci,
Dacia Maraini, Enzo Biagi e Tiziano Terzani. Oggi dirige i quotidiani del Gruppo Monrif

COSA HA FATTO

Ha iniziato subito a collaborare per La Nazione di Firenze, il suo primo articolo viene pubblicato il 5 marzo 2007 giorno del suo 22esimo compleanno. Entra poi nella redazione del quotidiano Il Giorno di Milano prima di rientrare a La Nazione nella
redazione di Siena

COSA FA

Ha appena pubblicato il suo libro “Un autunno d’agosto. L’eccidio nazifascista che ha colpito la mia famiglia. Una storia d’amore mentre la guerra torna a fare paura”, romanzo edito da Chiarelettere. Recentemente, per il suo lavoro, è stata insignita del Premio Marisa Bellisario, intitolato alla memoria della grande donna manager piemontese