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«Indago il rapporto tra uomo e natura studiando le dighe»

A tu per tu con lo scrittore Luca Rota: nel suo libro focus sulla Valle Gesso e Pontechianale

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Opera d’arte ingegneristica o ecomostro ciclopico? La diga è da sempre simbolo del rapporto fra uomo, natura e montagna. Nel suo libro “Il mi­ra­colo delle dighe”, Luca Rota rac­conta – da un incredibile pun­to di vista – la montagna, con la sua storia e i suoi paesaggi, in un tour mozzafiato per l’Italia, vissuto in prima persona.

Rota, da quali spunti trae origine “Il miracolo delle dighe”?
«Sin da bambino, l’immagine della diga è stata per me una sorta di mito. L’interesse nasce dal fascino ingegneristico proprio del manufatto: una sfida alla natura, non violenta, che deve scendere a compromessi con la montagna e con il territorio. Pur essendo, di fatto, un ecomostro, alieno all’ambiente circostante, stupisce ed ammalia le persone che, durante un’escursione in montagna, vi si trovano davanti: per questo si può definire un prodigio, un miracolo. Inoltre, il libro trae spunto da un progetto avviato in Val Camo­ni­ca da una nota azienda energetica, che aveva come o­biet­tivo quello di trasformare questi luoghi in palcoscenici in cui realizzare performance artistiche: avevo collaborato scrivendone il concept prima che il Covid fermasse tutto».

La natura è al centro di tutto.
«Attraverso la figura imponente della diga, parlo di montagna, del rapporto con la natura, in un alfabeto di codici materiali di cui la diga è il carattere ciclopico, che ha impresso in modo indelebile un segno nel luogo stesso do­ve sorge. Non è un libro tecnico, ma un volume in cui racconto la montagna in maniera alternativa, guardandola stando so­pra una grande diga, recependone la storia e cercando di capire cosa si trovi intorno: è una sorta di guida turistica, che può stimolare la visita dei territori citati, vallate spesso ricchissime di luoghi da esplorare, magari poco conosciute».

Quella del Vajont, ad esempio, è tristemente legata a una tragedia.
«Vajont è il paradosso dei paradossi: dal punto di vista ingegneristico, si tratta di un capolavoro assoluto, che però ha cagionato una tragedia immane. In quella tragica circostanza, la struttura resistette all’impatto dell’onda, che fu di ben dieci volte superiore al massimo della resistenza calcolata, aspetto che dimostra la qualità sia della progettazione che dei lavori di costruzione. Ci furono però quasi duemila vittime. Quel disastro ha rappresentato la fine dell’epoca d’oro per la costruzione delle dighe. Da allora, infatti, non se ne sono quasi più costruite. Una delle ultime è stata realizzata in provincia di Cuneo…».

La diga del Chiotas, in Valle Gesso.
«Esatto. Inaugurata, tra l’altro, quando l’impatto emotivo del Vajont era ancora molto forte, si presenta come un’opera spettacolare e inquietante allo stesso tempo, decisamente imponente se vista dal parcheggio del Lago della Rovina. Lo scenario è mol­to bello, particolare, proprio perché l’alta Valle Gesso è stata trasformata in un paesaggio assoggettato agli impianti idroelettrici. Il Chiotas è la più grande batteria idroelettrica italiana, per molti un esempio di futuro perché non depaupera le risorse ma utilizza la propria acqua, una vera eccellenza del nostro Paese».

E poi, in Granda, ha visitato la diga di Pontechianale.
«Un caso emblematico per un altro aspetto, perché rappresenta la completa trasformazione di un paesaggio consolidato, con l’evacuazione di Borgata Chiesa durante l’epoca fascista. Il lago ha così modificato totalmente l’aspetto di un territorio in cui vi erano una valle molto vissuta, un paese, una chiesa, campi coltivati, un florido commercio con la Francia. La diga ne ha cambiato sia l’esistenza che il paesaggio domestico: parlando con gli abitanti del luogo, però, ho constatato come, anche grazie al tem­po che medica le ferite, la popolazione abbia assimilato la presenza del lago, volano turistico che in­gentilisce il panorama, e pure di un elemento così impattante come il muraglione. Una sorta di “do ut des” geografico».

Impressioni sulla Granda?
«La conoscevo poco, ma devo dire che morfologicamente è molto bella, con le valli che si aprono a ventaglio e con tante diramazioni articolate. Sono rimasto affascinato dal punto di vista paesaggistico e culturale: que­st’area è riuscita a mantenere la cognizione dell’identità e delle tradizioni, salvaguardando alcuni punti che rappresentano veri scrigni sospesi nel tempo».

Tornando alle dighe, in un’epoca condizionata dalla siccità che valore possono assumere?
«Nel mio libro parlo di acqua. La siccità degli ultimi due anni ha riacceso la discussione sulla possibilità di costruire nuove dighe e invasi. Difficile prendere posizione a fronte di quello che potrebbe accadere per i cambiamenti climatici. Inoltre, una diga costa molto, con tempi lunghi di progettazione e realizzazione. E poi, nonostante siano passati sessant’anni, la ferita del Vajont è ancora presente e opera un’influenza negativa. Si discute an­che sull’occupazione delle conche lasciate dai ghiacciai scomparsi con nuovi invasi, ma pure in questo caso sono da ana­lizzare problemi di carattere ecologico e di ecosistema. In­som­ma, il dibattito resta aperto».

Originario di Lecco, ha già pubblicato 13 opere dedicate ai luoghi e alle persone che li abitano

Luca Rota, nato a Lecco nel 1971, vive tra le Prealpi Bergamasche: da sempre appassionato di montagna, nelle sue opere si è sempre focalizzato sui temi culturali legati al rapporto tra uomo, natura e paesaggi. A oggi ha pubblicato tredici libri di poe­sia, narrativa e saggistica, nei qua­li esplora proprio la relazione tra i territori, i luoghi, le genti che li abitano e i paesaggi che ne derivano. Ha inoltre curato mostre fotografiche, concorsi e raccolte letterarie, eventi e rassegne artistiche. Già con­duttore radiofonico, collabora con magazine e periodici. Membro del team dell’Officina Culturale Alpes di Milano, fa inoltre parte del gruppo cartografico di Ingenia Cartoguide, per le cui mappe cura le sezioni culturali. Il suo sito Internet è www.lucarota.it, mentre il blog è www.lucarota.com.

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