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«Sul palcoscenico messaggi serissimi ma con una risata»

Memorabile quel siparietto in sala con una spettatrice: «Niente muri con il pubblico, neanche un mattoncino»

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Non è un segreto: Cinzia Leone ha una suggeritrice in sala. Anzi due, ora una ora l’altra. Una è attrice di professione e l’altra no. Al­meno non ufficialmente, perché Alessandra, dalla prima fila di una platea da tutto esaurito, ha sigillato con una battuta da spalla navigata, uno dei mo­menti più esilaranti di “Mam­ma sei sempre nei miei pensieri. Spostati!”, spettacolo che ormai è repertorio (la prima da­ta utile da ora è il 29 luglio a Priverno, Latina, per il Festival Radure). «E chiedi alla si­gnora», fu la lapidaria risposta alla richiesta di Cinzia di andarle in soccorso.

Venne giù il teatro, compresa la signora, seduta a fianco e chiamata in causa perché alla precedente richiesta di aiuto aveva risposto prima di lei. In­somma, l’aveva battuta sui tempi – spettatrice 1 addetta ai lavori 0 – innescando un effetto domino da cavalcare al volo. Un siparietto improvvisato, na­to proprio lì per lì, senza sorta di premeditazione, che di­mostra due cose: la fidelizzazione (ma non solo) di un pubblico sintonizzato, e la inesorabile caduta del muro – quello che in gergo vie­ne chiamato quarta parete e che dovrebbe idealmente dividere gli attori dagli spettatori – abbattuto per volontà dell’interprete, evidentemente propensa a costruire con il suo pubblico ponti salvifici sopra le onde. Che sono marosi in cui tuffarsi senza affogare, tutti insieme, finalmente, nello spazio di una serata.

Cinzia, partiamo proprio dalla quarta parete che nei suoi spettacoli non è mai esistita.
«Infatti, nemmeno un mattoncino. La quarta parete to­glie credibilità anche a Pi­randello. A me interessa il teatro come luogo di riconoscimento collettivo, di identificazione attraverso il linguaggio, anche iperbolico. Il teatro è fatto da persone vive che parlano ad altre persone vive e la scommessa è riuscire sempre a far succedere qualcosa».

Cosa fa se intuisce che uno spettatore si è distratto (am­messo che le sia capitato)?
«Se vedo che è assente cerco di coinvolgerlo senza aggredirlo. Mi piacerebbe che quando esce da teatro lo spettatore si senta cambiato».

Una domanda di rito: il lavoro sul personaggio.
«Io non sopporto il finto e quello che cerco è la verità emotiva. Penso a figure come Stani­slavskij, Grotowski, Eugenio Barba, perché alla fin fine quello è il metodo: non ce n’è un altro. Mi avvalgo del linguaggio simbolico inconscio e vado dritta alla faccia della gente».

E questo vale anche per le imitazioni?
«Io non faccio propriamente imitazioni. Cerco di entrare nel carattere e nei caratteri delle persone per lavorare su quelle che per me sono metafore: dei personaggi non mi interessa né il timbro vocale né i tic».

Mi fa un esempio? La sua Dellera, la Fenech…
«Ecco, per Francesca Dellera ho lavorato sul divismo e sul suo relativo senso di inadeguatezza. Di Edwige Fenech invece volevo far emergere la felicità di essere la signora della domenica e di essere finalmente uscita dal cliché di attrice di film di serie B. Insomma cerco di entrare dentro il rapporto che il personaggio crea con la sua soluzione pubblica».

Un approccio quindi molto simile a quello della commedia dell’arte.
«Sì, è la commedia dell’arte finita in tv. In teatro questo genere funziona di meno. Diventerebbe vanità, esibizionismo».

Allora parliamo di “Mamma sei sempre nei miei pensieri. Spostati!” che invece in teatro funziona benissimo.
«Uno spettacolo non connesso alla realtà contemporanea che cerca invece di riflettere sulla mammità dentro di noi quando ci troviamo a pensare il pensiero di mamma tutta la vita. È che chi ti cresce non può che trasmetterti il suo vissuto e anche le sue paure. Il problema è riuscire a distinguere cosa appartiene a lei e cosa c’è di nostro. Le madri quando i figli crescono finiscono per sentirsi defraudate di un ruolo e a volte succede che ti rubino l’energia, la spinta propulsiva verso la vita».

Il conflitto, eterno motore di tutti i rapporti, raccontato con una risata.
«La risata è il veicolo per far passare messaggi anche seri e il pubblico ai miei spettacoli ride tantissimo».

Hai voglia! Si ride anche quando il bersaglio è la corruzione morale…
«Allude a quel pezzo in cui la madre dice “Famme morì, ma tu esci pure, vatte a divertì”».

Ecco!
«Un pezzo improvvisato sul conflitto, che cammina sul doppio binario tra come vorremmo essere e come riusciamo a essere. Una cosa che ci riguarda tutti».

Restando in tema di madri, veniamo a quella che interpretò in “Nero bifamiliare”, il film di esordio alla regia di Federico Zampaglione. Co­me madre di Claudia Gerini, era anagraficamente fuori ruolo.
«Incontrai Federico dal parrucchiere e lì mi propose il ruolo. “Ce la fai?” mi chiese e io risposi “sì, se costruiamo questa madre adatta a me”. Chiaramente non era un vezzo: è proprio un dato di fatto che non ho l’età per essere la madre di Claudia. Ne venne fuori un personaggio divertente, esempio di madre rompiscatole che accusa la figlia di averle rovinato la vita».

Con Claudia come andò?
«Benissimo, ci conoscevamo già e poi io non ho mai avuto problemi con le colleghe».

A proposito di colleghe, ha nostalgia dei tempi della “Tv delle ragazze”?
«Nostalgia no, ma conservo un gran bel ricordo, era stato un anno meraviglioso».

Ora so che tocco un tasto dolente, ma non posso non chiederle un ricordo di Francesco Nuti con cui lavorò in “Donne con le gonne”, film del ‘91 e record di incassi.
«Un tasto molto dolente. Francesco era un talento assoluto, i suoi film poetici, meravigliosi, diversi dai film in circolazione. Mi fece fare un cameo delizioso ma purtroppo non ci fu il tempo per costruire un rapporto stabile, un’assiduità, e quando andai a trovarlo in clinica mi accorsi che non mi riconosceva. Il mio dolore è non essere riuscita a toccargli il cuore».

Come spettatrice cosa sceglie Cinzia Leone?
«Sceglie di stare a casa a pensare».

E se le chiedo di pensare all’ultimo spettacolo che l’ha davvero catturata?
«”La cantatrice calva”, lo vidi al Teatro Vascello un po’ di tempo fa».

Lo ricordo bene. Era una ripresa postuma di una regia di Massimo Castri. Allora mi dica, non le piacerebbe recitare in una grande compagnia, interpretare un ruolo tragico, magari shakespeariano, diretta da un maestro/a della prosa?
«Magari! Lo farei di corsa. Ma purtroppo il nostro teatro è fatto di circoli chiusi e manca il coraggio di abbattere le porte, non solo la quarta parete».

Articolo a cura di Alessandra Bernocco

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