Alla partecipatissima celebrazione del Premio Roero a Baldissero d’Alba era presente anche Beppe Rovera. Per 25 anni volto della trasmissione Rai “Ambiente Italia”, testimone di eccellenze locali e, al tempo stesso, di ferite ambientali, è stato precursore di una sensibilità oggi più diffusa. Anche se non ancora radicata. «Sono cuneese e astigiano – ci dice sottolineando il legame persistente con il territorio -, perché sono nato e cresciuto a Savigliano e poi mi sono sposato e ho vissuto ad Asti, mi sento pienamente immerso in questo territorio patrimonio dell’umanità, Langhe Roero e Monferrato».
Girando l’Italia, però, ha ritrovato certe peculiarità?
«All’inizio del percorso di “Ambiente Italia” avevamo pensato di documentare la grande bellezza del nostro Paese che è sempre stato il giardino d’Europa con le sue meraviglie, i mari, i monti e i laghi. Poi però viaggiando, abbiamo messo anche il dito nella fragilità italiana. Perché è facile raccontare un bel paesaggio ma se quando giri la telecamera scopri una bruttura, subentrano responsabilità da scoprire. Le scelte scellerate nel Dopoguerra del grande rilancio industriale ma anche dei grandi orrori a volte sono diventate problemi di salute. Come a Casale Monferrato con l’amianto, ma anche a Priolo, Augusta e in tutta la Sicilia bella che con le raffinerie ha avuto e ha ancora oggi problemi per i bambini che in quelle zone nascono con malformazioni. Credo che con la nostra trasmissione abbiamo alzato in anticipo un livello di attenzione che si stava già diffondendo nell’opinione pubblica, la stessa che dopo Chernobyl aveva cominciato a capire che siamo a rischio se non stiamo attenti a fare le cose per bene. Lo sviluppo del territorio deve essere controllato e gestito con cura. Lo dicevano già negli anni ’60 quelli del club di Roma: un gruppo di ricercatori e imprenditori che avevano messo – anche in quel caso – il dito sulla piaga. Va bene lo sviluppo, ma deve essere sempre sostenibile».
A che punto siamo rispetto all’allarme che suonarono negli anni ’60 intellettuali come Aurelio Peccei e Alexander King da lei citati?
«Ci sono stati tanti cambiamenti, c’è molto più ragionamento attorno alle scelte che vengono fatte. Però quando succede qualcosa come di recente in Emilia Romagna, ti rendi conto che ancora non basta. È stato messo a nudo ancora una volta un disastro che per certi versi è stato perseguito, perché se autorizzi la costruzione di strutture su territori a rischio, raccogli anche questo. Abbiamo visto cosa è accaduto e sta accadendo in certe zone, qui la lezione non è stata ancora compresa. Si costruisce ad esempio in aree collinari, si fa ancora un uso indiscriminato del territorio senza adottare contromisure adeguate. Quindi sì, c’è maggiore attenzione ma non basta, soprattutto se poi la tentazione è sempre quella di “allargare le maglie”».
A proposito, ultimamente si è alzato il livello di attenzione nei confronti delle monocolture.
«Certo, si tratta di un problema reale. I cambiamenti climatici si stanno imponendo in tutta la loro evidenza anche se qualcuno cerca sempre di ridimensionare l’allarme. Però esistono, tanto che spingono anche molti a pensare a un’economia rinnovata, cioè spostando le colture di vino in zone più protette. Gli ultimi disastri hanno messo a nudo le fragilità, ci hanno fatto prendere coscienza e non si può più nascondere la testa sotto la sabbia».
La trasmissione “Ambiente Italia” aveva anticipato una tendenza?
«L’obiettivo è stato sempre quello di vedere il problema, capire sul territorio cosa fosse lo sviluppo sostenibile. Abbiamo vissuto i grandi drammi italiani, la stagione dei rifiuti in eccesso attraversata per prima da Milano, che ha vissuto una situazione terrificante trent’anni fa. Quello di Napoli è stato un caso conclamato. Ma sono stati tanti anche i casi di industrie che hanno scaricato rifiuti ovunque. Era giusto mettere in evidenza l’allarme, per capire come uscirne: basta volerlo».
C’è un’immagine, tratta dalle sue dirette, che le rimane impressa?
«Ce ne sono tante. Una è sicuramente quella dell’abbattimento dell’hotel Fuenti che era un abuso edilizio pazzesco sulla costiera amalfitana. La seconda riguarda l’abbattimento di un altro ecomostro che si trovava sul lungomare di Bari, la cosiddetta “saracinesca”, una specie di grattacielo… E poi, penso alla visione dall’alto dei laghetti della camorra nel Napoletano. Erano appezzamenti di terreno presi dai contadini e cintati, lì dentro venivano buttati i rifiuti radioattivi. Dopodiché li allagavano. E così dall’alto vedevi solo dei bei laghetti recintati. Mi viene in mente anche quella zona del Lazio, un lunghissimo tratto del fiume Sacco su cui si affacciano paesi molto belli dove però il latte non si può produrre perché è contaminato, dove non si coltiva frumento. Le aziende hanno contribuito al deposito di questi disastri e la gente ha il sangue avvelenato nel vero senso della parola. Come detto, c’è anche l’amianto di Casale per il quale si muore ancora, oppure l’amiantifera di Balangero, un cono rovesciato simbolo del cattivo sviluppo della ricchezza senza il dovuto rispetto del territorio».
Per fortuna c’è anche chi, nel frattempo, lavora per un ambiente vivibile.
«E sono numerosi. Sarebbe riduttivo ignorarlo. In giro scopri anche tanta bellezza ritrovata, il problema è non invertire la rotta, stare dietro al correre veloce del cambiamento climatico. Noi viviamo in un contesto particolare, il Mediterraneo è un mare più esposto di altri, soffre di più. Il cambiamento climatico comporterà un aumento del livello delle acque, ma non sono 20 centimetri a far sparire le città, piuttosto è la salinità che si insinua nelle colture a minacciare la distruzione delle economie locali».
La soluzione è nelle mani della politica?
«In parte sì, ma tutti noi dobbiamo fare qualcosa. A partire dagli imprenditori che dovrebbero avere visioni illuminate come certi personaggi del passato, da Olivetti a Ferrero. Dove la visione imprenditoriale va oltre l’interesse personale e ha un forte impatto sul territorio».
CHI È
Nato a Savigliano il 5 settembre 1952, è giornalista specializzato nelle questioni ambientali. Ha legato a questo la parte più significativa della sua carriera conducendo su Rai 3 la trasmissione “Ambiente Italia” e sviluppando negli anni una spiccata sensibilità civica
COSA HA FATTO
Primi passi nella redazione di Avvenire a Torino, poi all’Ansa e corrispondente – sempre dal
capoluogo piemontese – per il Corriere della Sera. Nel 1990 passa invece a condurre “Ambiente Italia”, trasmissione prodotta nella sede Rai torinese e destinata ad andare in onda per 25 anni
COSA FA
È spesso ospite e testimonial di festival culturali dove porta il suo contributo, maturato negli anni grazie alla sua attività giornalistica. A proposito, venerdì scorso ha presentato il Premio giornalistico del Roero nella serata che si è svolta sotto il castello di Baldissero d’Alba, assieme al collega Gian Mario Ricciardi e al presidente Giovanni Negro.