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Prigioniero di coscienza

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Patrick Zaki è libero. Ha ottenuto la grazia. L’amarezza della condanna a tre anni, inflitta dal tribunale di Mansura, diventa, nello spazio di poche ore, gioia per il provvedimento di Al Sisi. Finisce così un lungo intrigo politico-giudiziario, un impasto di sospetti e di tensioni che ha coinvolto Italia ed Egitto.
Zaki è un giovane ricercatore egiziano che svolge un master all’università di Bologna, arrestato il 7 febbraio 2020 all’aeroporto del Cairo, appena atterrato per trascorrere una breve vacanza in famiglia. Per ventiquattr’ore nessuno sa nulla, legali e attivisti denunciano però torture e minacce legate alla sua difesa dei diritti Lgbt, il giorno dopo viene formalizzato l’arresto con l’accusa di istigazione a violenza, proteste e terrorismo e di gestire un account social che mina la sicurezza pubblica. A Bologna, dov’è amato e conosciuto, organizzano subito una manifestazione, la Farnesina comincia a seguire il caso e il Parlamento europeo chiede il rilascio. Commuove l’appello dei genitori di Giulio Regeni, dottorando italiano all’università di Cambridge torturato e ucciso in circostanze misteriose al Cairo: molti indizi, e i successivi depistaggi, conducono a schegge dei servizi egiziani. Sospesa nel dicembre 2021, la condanna arriva il 18 luglio, subito seguita dal rilascio. Nei lunghi anni di udienze, paure e dolore, Zaki ha conseguito la laurea, ottenuto la cittadinanza onoraria di Bologna, Roma e altre città, confidato d’essere “esausto fisicamente e depresso”, suscitato mobilitazioni e appelli internazionali, trascorso infiniti periodi di solitudine senza nemmeno il conforto delle visite dei familiari.
Appena rilasciato, incontra la madre e manifesta la volontà di tornare in Italia, ma sceglie di farlo senza passerelle politiche, declinando l’invito a utilizzare un volo di Stato. Polemiche immancabili, imbarazzo e rabbia, accuse d’ingratitudine o – altra prospettiva – apprezzamenti per la voglia di normalità, ma lui non ci bada e sale su un volo di linea per Malpensa con la fidanzata Reny e la sorella Marise, alla quale da tempo aveva promesso un viaggio in Italia. A prelevarlo e condurlo a Bologna, la sua professoressa e il rettore dell’università del capoluogo emiliano dove si svolgono una festa popolare spontanea e una cerimonia emozionante alla presenza dei rappresentanti di Amnesty International, che tanto s’era spesa, e del disegnatore che aveva ideato la campagna in suo favore. «Ricomincio da qui» le parole del ragazzo che regala un sorriso a chiunque ne abbia seguito con apprensione la sorte e abbia sofferto immaginandolo nelle carceri egiziane a difendere una verità semplice con l’identica forza con cui ha sempre denunciato ingiustizie. Adesso, però, c’è una verità da cercare: quella di Giulio Regeni. È lo stesso Patrick a invocarla, dopo aver ringraziato le autorità egiziane e italiane, le Ong, la società civile e la Presidente del consiglio e promettendo di lottare ancora, sempre, per i diritti umani. Il portavoce di Amnesty, invece, ringrazia lui «per aver resistito e aver reso possibile la più grande campagna per un prigioniero di coscienza del XXI secolo».