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Un pezzo di cuore

Giuseppe Cadili, professore siciliano, spiega d’averlo lasciato al Convitto Falcone di Palermo. Non è retorica, perché ci ha passato oltre mezzo secolo: cinquantadue anni, da studente a educatore, trovando anche l’amore negli occhi di una compagna di scuola

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«Lascio un pezzo di cuore». È usuale dirlo quando s’abbandona un luogo amato, quando si recidono radici profonde, quando si chiude un lungo capitolo di vita per abbracciare un’esperienza nuova. Nel caso del professor Giuseppe Cadili, che la pronuncia nel giorno della meritata pensione, non c’è tuttavia pericolo sia frase fatta, sussulto retorico o modo di dire. Tra le mura del Convitto palermitano che abbandona ha trascorso cinquantadue anni: alunno e docente, infine educatore, ovvero guida e riferimento di tutti gli studenti. L’istituto era, forse rimarrà, il suo mondo: qui s’è formato lui e ha formato generazioni, qui ha visto scorrere infiniti volti, qui ha riconosciuto in nuovi iscritti i tratti di genitori passati dagli stessi banchi, qui ha scritto con il gessetto sulle lavagne d’ardesia e poi digitato sui tablet.
Al Convitto nazionale, il piccolo Giuseppe arrivò nel 1971: viveva a Caltavuturo, borgo delle Madonie, e all’epoca la struttura accoglieva ragazzi provenienti da località prive di istituti scolastici. Dalle elementari al liceo, tra lezioni e compiti, giochi e preghiere, il buio delle camerate e il profumo di cucina nel refettorio, la ricerca di un insegnamento sempre moderno, aggiornato, e l’austerità di tradizioni antiche come la struttura, un tempo incastonata in un grande edificio dei Gesuiti destinato all’attività scolastica, completato tra il 1675 e il 1695. «Il Convitto mi ha dato tutto: l’istruzione, un lavoro dignitoso, l’amore perché qui ho conosciuto mia moglie. E questo cordone ombelicale adesso prosegue con mio figlio, lui, Antonio. Qui lascio un pezzo del mio cuore», le parole di Cadili durante la festicciola di commiato, lui accanto alla rettrice, attorno colleghi e alunni commossi perché consapevoli di non assistere al capolinea d’un lavoro, momento di per sé difficile, ma all’uscita di scena di un testimone unico di oltre mezzo secolo, autore di un romanzo d’ampio respiro perché attraverso la storia di un istituto racconta com’è cambiato il mondo, intrecciando lo sguardo privilegiato del professore al centro della scena con la curiosità cronistica e lo stile essenziale del giornalista, altra sua attività.
Pensate che tra i tanti momenti storici dell’istituto c’è il cambio di nome avvenuto nel 1999, da Convitto Vittorio Emanuele II a Convitto Giovanni Falcone: ebbene, l’iniziativa portata avanti dal rettore fu suggerita proprio da Cadili dopo il ritrovamento, da parte della moglie Valeria, ex studentessa del liceo, delle pagelle del giudice che al Convitto aveva frequentato le elementari. E da un libro del professore, “La mia partita”, il regista Pasquale Scimeca ha realizzato un film, “Convitto Falcone”, girato quasi interamente dentro l’istituto.
Non conosciamo lo stato d’animo dell’educatore, non sappiamo se prevale la serenità di chi ha dato tutto e accetta le fasi della vita o la malinconia di chi fatica a rassegnarsi alla pensione: capiremmo, comunque, perché non lascia solo un lavoro ma davvero un pezzo di cuore. Mai frase fatta fu più appropriata, mai come stavolta non c’è ombra di retorica.