«L’uomo e il desiderio di scomparire: proviamo a cambiare»

A IDEA il forte messaggio contro guerre e soprusi dell’attore e regista verbanese Marco Baliani: «Il teatro può modificare in meglio le persone. L’ho testato con il mio “Pinocchio nero”»

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«Era da tempo che volevo de­­dicarmi a Ita­lo Calvi­no e l’occasione mi è stata offerta da Rai Radio 3 in occasione dei cento anni dalla nascita». L’occasione consiste nel dare voce a venti delle due­cento fiabe che Calvino ha attinto alle tradizioni po­polari regionali del nostro Paese, trascritte in lingua dai vari dialetti. E non è certo un caso che i vertici della nota emittente radiofonica abbiano pensato a Marco Baliani: attore, autore, regista, è un riferimento certo di quel teatro di narrazione che fa a me­no del filtro del personaggio e investe sull’attore e sulle sue qualità affabulatorie per restituire storie reali o immaginarie, spesso frutto di una certosina ricerca di fonti; ricerche fatte in prima persona o affidandosi a operazioni altrui.

Baliani, si può dire che il suo, in questo caso, è un percorso inverso a quello che ha compiuto Calvino?
«Sì, quella di Calvino è stata una trascrizione di fiabe che avessero una voce e io ora tor­no all’oralità. Che è però un’oralità straripante rispetto alla concisione di Calvino, che ha fatto per le fiabe un lavoro simile a quello delle “Le­zioni americane”. Consi­de­ri che una pagina scritta diventa un racconto di venticinque minuti. La pagina scrit­ta non vola, io ho fatto il lavoro inverso».

E cosa si è inventato?
«Innanzitutto, ho dato voce ai vari personaggi, oltre la voce narrante e ho cercato di restituire i colori caratteristici di ogni regione. Usando per la Toscana un linguaggio più forbito, per esempio, o assumendo un leggero accento dialettale».

Mi spiega cosa intende esattamente per post-narrazione?

«Intendo che il narratore non ha più in mano le redini del rac­conto dall’inizio alla fine ma permette che entrino le voci degli altri personaggi e che ognuno possa dire la sua. Non è più il narratore che go­verna la storia ma è egli stesso governato da altre voci. È un termine che ho usato per spiegare il lavoro fatto con “Una notte sbagliata”, in cui portavo in scena il corpo di un uomo fragile, un bipolare che in una serata come le altre diventa un capro espiatorio e subisce i soprusi dei poliziotti. Lì davo voce anche a loro, ai dottori, persino al cane».

Tornando alle fiabe, qual è stato il criterio di selezione per arrivare a venti?
«Non ripetere le stesse tematiche e cercare la terrestrità di ogni fiaba, la forza di ogni regione, la sua antropologia. E che il rapporto tra personaggi maschili e femminili fosse equilibrato».

Il suo rapporto con la letteratura abbraccia molti autori e diverse epoche: penso a Boc­caccio, Ariosto, ma anche Cur­zio Malaparte, di cui mise in scena “La pelle”.
«Infatti, mi interessa di più il teatro nato dalla letteratura che da un testo teatrale. Non riesco a stare dentro una tessitura già fissata e agli attori chiedo sempre cosa portano di loro stessi in una determinata storia. Scelgo testi da cui l’attore possa entrare e uscire. Anche adesso che sto per fare l’“Arlecchino” di Goldoni con Andrea Pennacchi, ho avuto bisogno di smembrare il testo e riscriverlo: la prima settimana di prove sarà senza testo».

Di qualche anno fa è l’esperienza africana di “Pinocchio nero” con venti ragazzi di Nai­robi, replicata con “L’amo­­re buono. Una ballata ai tempi del­l’Aids”, in collaborazione con Amref: un lavoro basato sulla vita reale dei “chokora”, termine che significa “rifiuto”, riferito ai ragazzi che vi­vo­no in strada in situazioni di pericolo continuo, Aids compresa. Che ricordo ha?
«L’esperienza più bella della mia vita, non solo dal punto di vista strettamente teatrale, perché tutte le volte che il teatro agisce su esseri umani, mo­dificandoli, è una vittoria».

Come ha lavorato con ragazzi che il teatro non sapevano nem­­meno cosa fosse?

«Ho lavorato come lavoro con gli attori e ho affrontato di pet­­to la loro assenza di corporeità. Erano deboli, sniffavano colla e i loro corpi non era­no all’altezza di quello che chiedevo».

E allora?

«Allora li ho sfidati. Ho detto loro: “Io che sono bianco e vecchio (nel 2000 si attestava sulla cinquantina, nda) salto più in alto di voi. Tor­no tra dieci giorni, a patto che smettiate di sniffare, ri­torniate a scuola, vi presentiate puliti”».

E fu un successo su più fronti, ampiamente condiviso. Co­me lo fu il progetto “I porti del Mediterraneo”, una serie di spet­­tacoli-laboratorio con giovani attori selezionati nelle diverse città del Me­diterraneo (Tunisi, Beirut, Marsiglia, Tira­na, Bari, Geno­va).
«Sono stati anni bellissimi, un incrocio di storie e antropologie che ti fanno capire che non siamo il centro del mon­do. Un’esperienza im­pen­­sabile oggi, in questo mon­do ri­stretto, impoverito, di totale declino delle relazioni uma­ne».

La sua attenzione verso storie di emarginazione, violenza e sopraffazione ritorna anche attraverso il rapporto con i classici. Penso a “I Set­te contro Tebe”, riadattato per la sta­gione dell’Inda a Si­racusa nel 2017, ambientato ad Alep­po, durante la guer­ra civile siriana.
«Aleppo, come Tebe, è una cit­tà assediata, dove a farne le spese sono sempre i civili e do­ve le donne vengono stuprate dalla polizia etnica. Purtroppo, le tragedie continuano a parlare di noi. “Edi­po”, per esempio, nella necessità di individuare il colpevole rimasto impunito, mi è servita per parlare di stragi in­com­piute nel nostro Paese facendoci vedere, al contrario, quello che noi non siamo stati capaci di vedere».

Veniamo al 16 ottobre 1943, il rastrellamento del ghetto e­brai­co nella capitale, a cui lei ha dedicato un lavoro riproposto al Teatro Argen­ti­na di Roma per ricordare a ottant’anni di distanza. Che rapporto c’è tra quegli eventi e la situazione odierna?

«Nessuno. Sono due cose com­pletamente diverse. Là si trattava dello sterminio di un popolo e di quello sterminio bisogna tenere viva la memoria. Questa è una guerra e bisogna capire e parlare di co­me si è arrivati a questo pun­to. Su tutto c’è un dato su cui gridare: la mattanza dei bambini, in Palestina, Israele, nel Sud del Sudan, in Russia e in Ucraina e dovunque si mandano a morire figli e nipoti. C’è una spaventosa regressione dell’umano, un “cupio dissolvi” che fa paura».