«Langhe e Roero vincenti perché scelgono la qualità»

A tu per tu con Giuseppe Scognamiglio, consulente per la candidatura del territorio Unesco a Capitale della Cultura e direttore del Comitato Roma Expo 2030

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Dalla candidatura del territorio a Ca­pi­tale della Cultu­ra a quella di Ro­ma, in lizza per l’assegnazione di Expo 2030, passando per un’analisi del conflitto in corso in Medio Oriente. È un’intervista a 360 gradi quella che abbiamo realizzato con il diplomatico, manager, giornalista e docente universitario Giuseppe Scogna­mi­glio, tra i tanti incarichi direttore generale del Co­mi­tato Promo­to­re Expo 2030, direttore della rivista di geo­po­litica “eastwest” e consulente per le relazioni istituzionali nell’ambito della candidatura di Alba Bra Langhe Roero a Capi­tale Italiana della Cultura 2026.

Scognamiglio, partiamo dal lo­cale: quali sono i punti di forza del dossier albese-braidese?
«Sono soprattutto due. Il primo è dato dalla straordinaria coesione del territorio rispetto alla candidatura stessa. Non si tratta, in realtà, di un’idea del tutto nuova, ma la compattezza che ho riscontrato qui è davvero particolare. La seconda peculiarità è senza dubbio la qualità del dossier stesso, che è stato curato da una squadra di professionisti estremamente esperti e competenti».

Cosa fa la differenza in questo dossier?
«Il fatto che non si concentra solo sugli eventi quanto piuttosto sulla possibilità di consentire al territorio di ripensare l’approccio collettivo alla cultura. Tutto ciò potendo contare su un consenso pressoché unanime. Come dicevo prima, so­stengono e credono nelle po­ten­zialità del riconoscimento praticamente tutti: dalle istituzioni alle associazioni, dai privati al Terzo Settore».

Qual è il suo rapporto con la provincia di Cuneo?
«Lo so, sembra incredibile, ma fino a un paio di anni fa non ero mai stato da queste parti. E dire che ho già visitato quasi 100 dei 195 Paesi presenti nel mondo…».

Che idea si è fatto?
«Ho trovato un territorio che sta compiendo le scelte giuste, ovvero valorizza le competenze, le qualità e i talenti di cui di­spone. Anche nell’attrarre in­ve­stitori e turisti lo fa sempre con un approccio qualitativo. Segno che a guidare quest’area c’è una classe dirigente intelligente. Sono ri­masto impressionato in positivo».

Da una candidatura all’altra: quella di Roma per Expo 2030. La capitale se la vedrà con Riyad (Arabia Saudita) e Busan (Corea del Sud). Il 28 novembre arriverà il verdetto del Bureau International des Expositions. La sua previsione?
«Nessuna delle tre città candidate ha i due terzi dei voti necessari per vincere al primo tentativo e, quindi, quasi sicuramente, si andrà al ballottaggio, dove credo che la sfida sarà tra noi e l’Arabia Saudita. Ce la giocheremo fino all’ultimo vo­to. Peraltro, abbiamo un con­to aperto con la storia: l’E­spo­sizione Universale del 1942 si sarebbe dovuta svolgere proprio a Roma, ma non ebbe mai luogo a causa, purtroppo, della Seconda Guerra Mondiale».

Quale aspetto può risultare decisivo?
«La nostra candidatura si basa sui valori. Sì, perché abbiamo l’ambizione di mettere attorno ai tavoli di riflessione che si organizzeranno davvero tutti: minoranze, opposizioni, rappresentanti dei migranti, sindacati, oltre ovviamente alle istituzioni e ai portatori di interesse economici. In sostanza, vo­gliamo che Expo 2030 offra per davvero delle soluzioni alle tante, importanti, sfide che ci attendono. E si può raggiungere un risultato del genere solo se tutte le componenti valoriali sono realmente coinvolte».

Cosa significherebbe riportare Expo in Italia?
«In parallelo al desiderio di mettere al centro i valori, portiamo avanti l’idea di coinvolgere nell’evento il maggior numero di persone. Questo per far sì che il dibattito che scaturirà sia il più possibile condiviso. Numeri alla mano, un’edizione di Expo viene considerata di successo quando riesce a richiamare tra i 20 e i 25 milioni di turisti. A Ro­ma arrivano normalmente 20 milioni di visitatori, anche senza Expo. Quindi, l’obiettivo di 30 milioni di persone è alla portata. La sfida sarà portarle dal centro della capitale a Tor Ver­ga­ta, dove abbiamo previsto di organizzare la manifestazione, nel resto d’Ita­lia e negli Stati confinanti. È un’opportunità per tutti».

Fin qui notizie che infondono fiducia. Non posso però non chiederle un commento sui fatti del Medio Oriente.
«Faccio una premessa, che non vuole giustificare nessuno, ma serve per analizzare il contesto e pensare a soluzioni che possano portare a un accordo o, ancora meglio, a una pace duratura. A Gaza ci sono stato di persona e posso dire che le condizioni urbanistiche in cui vivono gli abitanti sono traumatizzanti. È peggio di qualsiasi periferia metropolitana degradata».

Come si è arrivati a questa escalation?
«Per troppo tempo, tutti, o quasi, hanno finto che la situazione fosse risolta. Ma, come ripeto ogni anno ai miei studenti della Luiss, la questione non solo è aperta, ma è un vulcano pronto a esplodere. E tutto ciò ora si sta verificando. Venendo alle cause, una delle maggiori va imputata alla classe dirigente americana: pur essendo una super potenza, gli Usa hanno smesso di occuparsi del­le crisi internazionali».

Come mai?
«Forse si sono resi conto di essere bravi a risolvere i conflitti con gli interventi militari ma meno a gestire le situazioni dopo le guerre. Il caso dell’Af­gha­nistan lo conferma. Ma da super potenza quale sono, non possono esimersi dal gestire certi casi, e così, dopo un disinteresse iniziale, devono poi comunque occuparsene, intervenendo però quando ormai la situazione è emergenziale. A ciò si aggiungono l’affanno del­le Nazioni Unite e la debolezza dell’Unione Europea».

Quale scenario immagina?
«È difficile dirlo, ci sono troppe variabili in gioco. Resta il fatto che il conflitto potrebbe allargarsi e che l’Europa si trova, di fatto, tra due guerre, una a Nord-Est e una a Sud».

La soluzione?
«Servono scelte coraggiose, co­me, ad esempio, dotarsi di un esercito europeo. Vanno bene l’alleanza con gli Usa e la Nato, ma una forza armata continentale darebbe all’Euro­pa maggiore credibilità, anche nei negoziati».