Elisa Palazzi, docente di Fisica del Clima all’università di Torino, parteciperà all’incontro “L’agricoltura in tempi di guerra e cambiamenti climatici”, che si terrà lunedì 20 novembre alle ore 18 nella Sala Grande del Circolo dei lettori di Torino.
Quanto e cosa dei cambiamenti climatici che stiamo vivendo si può considerare “normale” e quanto invece è frutto di condizioni “indotte”?
«I cambiamenti climatici attuali sono determinati dal riscaldamento globale che è un fenomeno interamente dovuto alle attività umane. In questo momento non ci sono processi naturali responsabili dell’aumento della temperatura globale, ma soltanto le emissioni di gas a effetto serra provenienti dalla combustione di materiali fossili, da altri processi industriali o agricoli e dalla deforestazione. Questa attribuzione è riconosciuta ormai come “inequivocabile” dalla nostra comunità scientifica, ma ci sono ancora sacche di negazionismo che cercano di attribuirla ad altre cause per rallentare i provvedimenti economici e politici di contenimento delle emissioni».
Come si sta manifestando il cambiamento climatico?
«Con l’alternanza molto repentina, che riscontriamo negli ultimi anni, tra fenomeni estremi opposti. Ad esempio siccità e poi precipitazioni intense. Segnali che devono farci drizzare le antenne».
Gli scenari per il futuro prossimo sono preoccupanti e ne stiamo già sperimentando i segnali: siccità, eventi atmosferici sempre più violenti e inizio delle migrazioni climatiche. È possibile tornare indietro? C’è qualcosa che ognuno può fare per invertire la rotta?
«Tornare indietro non è più possibile, questo nuovo assetto climatico ci accompagnerà per molti secoli a venire. Possiamo però fermare il peggioramento della situazione climatica. L’Accordo di Parigi ci offre questa scelta: o due gradi in più a fine secolo se facciamo una rapida cura disintossicante dell’atmosfera, oppure fino a cinque gradi in più con conseguenze catastrofiche soprattutto per le generazioni più giovani. Possiamo tutti fare qualcosa per ridurre i nostri impatti ambientali e climatici: consumare meno, consumare meglio, eliminare gli sprechi, utilizzare energie rinnovabili, viaggiare meno in aereo, mangiare meno carne, opporsi alla cementificazione, piantare alberi, limitare la produzione di rifiuti. Ma la parola “meno” oggi è molto impopolare. Tutti vogliono soltanto di “più”, però la Terra ha dimensioni limitate e quindi non può sostenere la crescita infinita. Se in tanti scelgono comportamenti più consapevoli si può davvero fare la differenza».
Secondo lei, finora, sono state attuate delle misure davvero efficaci da parte delle istituzioni per cercare di ridurre gli effetti dei cambiamenti climatici?
«No, quanto fatto non è sufficiente, molte parole, pochissimi fatti, con tanto ricorso al “greenwashing”. Lo dimostrano le emissioni che continuano a crescere, ogni italiano emette circa 7.000 chili di Co2 fossile all’anno, e non siamo nemmeno i peggiori, gli americani arrivano a quasi il triplo di noi. Più attenzione in questi ultimi anni si riscontra nelle amministrazioni locali, ma gli interventi dovrebbero diventare strutturali non solo conseguenza del disastro. Bisognerebbe rendersi conto che gli investimenti vanno fatti, in maniera sistematica, sulla prevenzione. La politica dovrebbe ascoltare e confrontarsi di più con la scienza».
Secondo lei, la mobilità elettrica e l’abbattimento degli allevamenti intensivi attraverso la riduzione del consumo di carne sono davvero la chiave per combattere i cambiamenti climatici?
«La complessità della crisi ambientale fa sì che non ci siano soluzioni uniche o bacchette magiche. Le responsabilità investono tutti i settori e i processi, chi più chi meno. Quindi la riduzione del consumo di carne può dare un contributo, così come le auto elettriche, a patto che siano caricate con energia rinnovabile, ma sono soltanto elementi parziali di un quadro più vasto che tocca qualsiasi nostra attività legata a consumi di energia e materie prime. Il cambiamento comincia prima di tutto nella nostra testa, che deve contemplare la parola “sobrietà” e poi si declina con le scelte tecnologiche o comportamentali».
I giovani sono più attenti all’ambiente, le nuove generazioni spesso scendono in piazza per richiedere a gran voce provvedimenti contro il riscaldamento globale. Un segnale che c’è ancora speranza?
«Più di altri, gli adolescenti sono preoccupati per la crisi climatica, una “emergenza globale” che in futuro sconvolgerà le loro vite e per la quale chiedono una “azione immediata” di contrasto ai politici, agli amministratori. La paura di una vita dove staranno meno bene porta per fortuna ad azioni costruttive che mirano a smuovere le coscienze. E a far sentire noi adulti in difetto».