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«Per sentire mia l’azienda ho dovuto capire chi fossi»

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Quando è arrivato in azienda?
«Da certi punti di vista, ci sono sempre stato: quando nasci all’interno di un’azienda, senti parlare solo di quello. Negli Anni ’70 facevo le vacanze in cantiere e ho vissuto un mondo che adesso non esiste più».

Cosa ricorda?

«Eravamo un’aziendina, mio padre faceva tutto lui e lavorava 18 ore al giorno. È strano, io ho sempre saputo che questa sarebbe stata la mia strada, ma ci ho messo un po’ a concentrarmi sull’obiettivo».

E quale era la priorità?

«Capire chi fossi. È il passo da cui parte tutto. Volevo crescere, attraverso tutto quello che facevo, sport: motocross e ciclismo, ma anche il lavoro. Trovare una mia identità, anche grazie alla meditazione. Avevo bisogno di essere in sintonia con tutte le persone che mi circondavano».

Un discorso ampio e quasi esistenziale.

«Sì, riguardava anche l’alimentazione, il sapersi prendere cura di sé e imparare a gestire i conflitti con serenità. Una mentalità che ho cercato di sviluppare nella nostra azienda. Si trattava di capire, all’interno di questo percorso, la propria natura, le proprie peculiarità».

Cosa rappresenta per lei la famiglia?

«Vengo da una famiglia unita e per me è una cosa importantissima, ho avuto la fortuna di avere una moglie straordinaria e quattro figli. Sono il mio spazio sicuro, con loro mi piace condividere. Da genitore ho delle preoccupazioni e si affrontano dei momenti difficili, ma non bisogna forzare i propri figli e aiutarli ad emergere».

Come era il rapporto con suo padre?
«È stato in gioventù anche conflittuale, ma siamo stati in grado di appianare e di andare avanti: a volte i padri pensano che i figli non siano mai abbastanza e i figli dipendono troppo dal giudizio degli altri. Ho capito presto l’importanza dell’equilibrio, an­che in senso pratico e lavorativo».

Si spieghi meglio.

«Nell’edilizia già negli Anni ’70 si notava uno squilibrio energetico, io sentivo che non c’era solo il bello di cui tenere conto, ma bisognava essere funzionali. La prima casa in bioedilizia l’abbiamo costruita nel 1994: ho iniziato a studiare e a fare corsi, a interessarmi alle novità, come le case in paglia, ma sapevo di aver anticipato i tempi e di dover aspettare il momento giusto».

Ora sente di poter essere meno tradizionalista?

«Con il Covid la gente ha avuto la possibilità di fermarsi, di essere consapevole della qualità della vita e della qualità delle case a livello energetico. Il bello è anche legato alla positività e al clima che si instaura in un ambiente. Ogni casa dovrebbe avere l’energia di un bosco o di un torrente».

Cosa le piace del suo lavoro?

«Oltre alla possibilità di sperimentare, mi piace il rapporto con le persone, cercare il bello in chiunque incontro. E poi sono riuscito a realizzare un sogno, tornando alle radici contadine che aveva la famiglia di mia madre: ho una casa con venti ettari di terra, faccio l’olio, ho le mucche, un bosco. Per me è un modo di stare con i piedi per terra e nella terra. La terra è anche in casa mia: ho scelto degli intonaci in terra cruda delle vigne del Roero, sempre a chilometri zero».

Ora quali sono i suoi obiettivi?

«Continuare a essere determinato, focalizzato sui risultati da raggiungere, in questo la mia formazione sportiva mi ha aiutato molto. Voglio puntare sulla qualità e su progetti che facciano felici i clienti. A livello personale sento sempre il bisogno di trovare nuove sfide e di mettermi in discussione».

BaNNER
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