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«Chirurgia uretrale, c’è una soluzione su misura per tutti»

Elisa Berdondini, unica in Italia, è specializzata nella ricostruzione plastica uretrale-genitale femminile: «Il mio metodo per rigenerare i tessuti»

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Passione, studio, de­di­zione, professionalità. Ma anche em­patia per il pa­ziente che segue a 360° gradi nel percorso di cura e guarigione. Medico chirurgo specializzato in Urologia, Elisa Ber­dondini è originaria di Ra­ven­na, ha studiato a Firenze e da tempo ha scelto Torino co­me sua città di adozione. Dal 2005 dedica la sua attività alla chirurgia ricostruttiva dei genitali ma­schili e femminili e alla ricerca scientifica, partecipa come relatrice a congressi urologici na­zionali e internazionali e ha all’attivo – in riferimento alle pa­tologie genito-uretrali -, numerose pubblicazioni di libri e articoli su riviste medico-scientifiche di afflato internazionale. Un’esperienza di oltre 15 anni che l’ha resa ambasciatrice della professionalità e dell’eccellenza italiana nel mondo.

Dottoressa, lei si occupa di una branca molto specifica dell’Uro­logia. Ci spiega qual è stato il suo percorso e come è arrivata a questa scelta?
«È una chirurgia di nicchia perché le patologie fanno parte dell’urologia, mentre le tecniche chirurgiche fanno parte della chirurgia plastica. Ricostruisco l’uretra e i genitali utilizzando tessuti prelevati dal paziente stesso, come cute, mucose o tess­uto adiposo. Il mio percorso è iniziato con la specializzazione e subito dopo sono andata a lavorare nel centro di chirurgia uretrale-genitale ad Arez­zo. Lì ho avuto la possibilità di imparare le tecniche chirurgiche necessarie per questi interventi, grazie alla collaborazione con chirurghi ricostruttivi e chirurghi plastici internazionali».

Lei è tra le poche specialiste in Italia ad affrontare questo tipo di chirurgia per l’uomo, mentre forse è l’unica che si occupa anche della ricostruzione femminile. Quali tecniche utilizza e come si evolve il settore?
«Le tecniche che utilizzo sono quelle classiche con l’uso di tessuti autologhi, cioè prelevati dal corpo stesso del paziente, per sostituire le parti danneggiate. Dal 2019, grazie a esperti chirurghi plastici internazionali, ho appreso una nuova me­todica che prevede l’utilizzo del tessuto adiposo e permette di ri­generare i tessuti invece di so­stituirli come per le tecniche clas­siche. Questo mi ha dato la possibilità di poter trattare tantissime patologie uretrali e genitali caratterizzate da cicatrici, in­fezione cronica e dolore cronico».

Quali sono le patologie più frequenti e qual è il loro impatto sulla popolazione?
«Le patologie uretrali-genitali sono relativamente rare. In maggior parte patologie be­ni­gne, come stenosi uretrale, li­chen sclerosus, ipospadia fallita, atrofia vulvo-vaginale, malattia di Peyronie, fistole, incontinenza, traumi, malformazioni, tu­more del pene. Hanno però un forte impatto sintomatologico, come difficoltà a urinare, difficoltà o impossibilità all’attività sessuale, dolore e un discomfort psicologico notevole. L’im­patto sulla popolazione è pesante, perché nei reparti di urologia non ci sono urologi che si occupano di questa branca per cui al paziente viene consigliato di rivolgersi al chirurgo ricostruttivo. Spesso i pazienti sono indirizzati a me dagli urologi, dai ginecologi o da altri medici».

È difficile per un paziente, anche psicologicamente, intraprendere il percorso di ricostruzione chirurgica? Come lo segue?
«Come ho detto, queste patologie sono in genere benigne, ma i sintomi e segni clinici riguardano la sfera urinaria, sessuale e l’aspetto estetico dei genitali, con risvolti negativi, sia sulla vita quotidiana, sia sulla vita di relazione e con importanti ri­percussioni a livello psicologico. Il paziente prima di tutto de­ve essere accolto, ascoltato e l’in­tervento chirurgico è totalmente personalizzato: si parte dalla necessità di ricostruzione chirurgica, ma si valutano e si ponderano le richieste del pa­ziente in termini di funzione uri­naria, sessuale e dell’aspetto estetico».

Parliamo di parità di genere: un tempo il suo settore era considerato prettamente maschile, mentre oggi sono diverse le donne che accedono a questa specializzazione. Pensa che esista an­cora un divario di genere, ovvero che le donne debbano affrontare maggiori difficoltà per affermarsi nella professione medica?
«Beh sicuramente…, ad ottobre sono stata invitata a moderare una sessione proprio su questo argomento al congresso internazionale di urologia a Istan­bul. La maggiore difficoltà è la necessità di equilibrare la vita lavorativa con la vita familiare, considerando le ore lavorative necessarie e la mancanza di aiuti che spesso la donna sperimenta. Ancora oggi ci sono gli stereotipi per cui l’uomo viene associato alla vita lavorativa e la donna alla cura della casa. Siamo molto lontani da una so­cietà che vede l’eguaglianza uo­mo-donna».

È molto attiva sui social, dove condivide esperienze e sapere: pensa che la divulgazione scientifica possa trarre giovamento da questi canali di comunicazione?
«Ho iniziato alcuni anni fa con la divulgazione scientifica ai medici: insegno chirurgia uretrale-genitale agli urologi che lo richiedono: attualmente un centinaio da 33 Paesi diversi stanno seguendo il mio corso online. Con il tempo ho capito che i social sono molto utili anche ai pazienti, sia per conoscere me­glio le patologie, sia per capire quale possa essere una soluzione al loro problema. D’altra parte la comunicazione è sempre stata alla base della divulgazione e della conoscenza».

È nata a Ravenna, ha studiato a Firenze, lavora in Pie­monte, Lombardia, Emilia Ro­ma­gna e ha scelto di vivere a T­orino. Cosa l’ha attratta di questa città?
«Torino è una bellissima città, con un’architettura incantevole attraversata dal Po con innumerevoli spazi verdi, una realtà che difficilmente una grande città può offrire. È a misura d’uomo, tuttavia offre tantissime opportunità: sono perciò contenta che i miei figli possano crescere qui, in un ambiente vivace e multiculturale».

 

I “mangiatori anonimi” anche nel cuneese «Il percorso più sicuro per recuperare se stessi»

È nata negli Stati Uniti nel 1960: Over­eaters Anonymous (O.A.) è un’associazione di persone che soffrono dell’incapacità di controllarsi davanti al cibo, di­pendenza molto simile a quella per l’alcool. In Italia sono attivi più di 60 gruppi, anche nel Cuneese, ed è inserita nel Re­gistro Nazionale Associazioni di Pro­mo­zione Sociale (Aps). Un ulteriore tassello per cercare di contrastare i disturbi alimentari, sempre più diffusi anche tra i giovani, che non si manifestano solo con il rifiuto del cibo. L’associazione so­stiene che il disordine alimentare è una malattia emotiva e dell’anima, come al­colismo e tossicodipendenza. Non è so­lo quanto viene ingerito che definisce il “mangiatore compulsivo”, ma i modi in cui cerca di controllare cibo e peso. Al­cuni mangiano in segreto, altri sbandierano il loro eccesso alimentare. Alcuni si abbuffano o vomitano, usano lassativi e diuretici, compensano con lo sport, altri ancora alternano digiuni ed eccessi.
Gabriella, 60 anni, torinese, si è rivolta trent’anni fa all’associazione: «Ave­vo da poco compiuto 30 anni, metà trascorsi tra diete, fame, ab­buffate, ossessione per il peso, taglia, bi­lancia, esercizio fisico. Ricordo la mia prima riunione OA. La sensazione fu: non sono più sola. E sono passati 28 anni. Il programma è un cam­mino. Lo dico sempre alle persone nuove nei gruppi: se stai cercando una soluzione a breve termine non è il posto per te, se cerchi una soluzione che ti pos­sa aiutare a recuperarti da questa dipendenza, un giorno alla volta, sei nel posto giusto. Ho usato la parola “recupero” e non “guarigione” perché, come da qualunque altra dipendenza, non si guarisce, ci si recupera». (al.tor.)

Articolo a cura di Erika Nicchiosini

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