“Ci saranno giorni in cui ti aspetterò qui sulla porta a farmi male… strano amare a quest’età, ho ancora lacrime da dare”. Suonano più o meno così i versi iniziali di “Voglio ancora amarti”, il brano inedito che Sal Da Vinci scrisse quando morì suo padre e che ora fa parte di “Sal Da Vinci Stories”, lo spettacolo in tournée che ha debuttato al Teatro Parioli di Roma il 22 novembre. Un’immersione nei ricordi che riposano sotto la polvere di una cantina in cui il “nostro” prova a rifugiarsi alla vigilia di un importante concerto, contro la volontà del suo manager che, chiaramente, non gradisce. È l’antefatto, la situazione in cui ci troviamo a inizio spettacolo, prima che i ricordi si levino in piedi e diventino storie: proprio le storie di cui oggi siamo ad un tempo protagonisti e spettatori. Le storie dei social, in particolare di Instagram, che sfilano in uno schermo amplificato sul fondale a mano a mano che il racconto procede. È la vita, in tutta la sua pienezza, intrecciata di musica, amici, affetti, la vita che odora di palcoscenico calcato accanto al padre fin da bambino.
Sal, com’è nata l’idea di affidarsi a Instagram per raccontarsi al pubblico?
«Negli ultimi vent’anni i social hanno prodotto nella comunicazione una trasformazione che non ci saremmo aspettati. Quello delle “stories” è un paradosso, visto che a teatro siamo abituati a chiedere di spegnere i cellulari e qui invece chiediamo di rimanere connessi».
Lei nella vita che rapporto ha con i social?
«Li uso in modo parsimonioso. Non mi piace l’idea che potremmo anche non muoverci più dal divano. Oggi l’oggetto che tocchiamo di più è lo smartphone».
Che lei chiede espressamente di usare in questo spettacolo.
«Al mio cambio immagine: un gioco. Cuore nel passato e testa nella modernità, ma sempre rispettando il viaggio personale della vita, che è fatta di incontri: al bar, in scena, intorno a una tavola».
“Ti aspetterò a bere il nostro vino buono” è la seconda strofa della canzone dedicata a suo padre. Perché questo brano è rimasto in cantina tanti anni?
«È molto intimo e non trovavo il coraggio. Ogni volta io mi commuovo e quando finisco di cantarlo vedo anche il pubblico che piange».
Con suo padre, Mario Da Vinci, celebre interprete della sceneggiata napoletana, ha esordito che aveva appena sei anni. Ricorda il primo momento in cui è salito sul palco?
«Seguivo mio padre tutte le volte che potevo e mi divertivo a ripetere le sue battute. Poi salivo sul palco e mi esibivo interrompendo le prove e costringendo la compagnia a fermarsi».
E la lasciavano fare?
«No, era il direttore del teatro che mi adorava e li costringeva a sopportarmi».
Poi però è stato assunto.
«Avevo sette anni. Nel 2026 festeggio mezzo secolo dal debutto. Mio padre è stato pioniere di quel genere di teatro in cui si rappresentavano le storie vere e io, nel ruolo di uno scugnizzo strappacore che aveva perso la vista in un incidente, strappavo l’applauso».
Era consapevole di essere un bambino di successo?
«I Vhs degli spettacoli venivano venduti in tutto il mondo, dall’Australia agli Stati Uniti; io andavo a scuola accompagnato perché sennò venivo braccato per strada, però non capivo il motivo: cosa voleva tutta quella gente da me?»
Ha mai pensato di fare un altro lavoro?
«Mai. Non ho mai desiderato fare niente che non fosse teatro o musica. Sono cresciuto in una casa di musicisti ed è stato inevitabile fare questa scelta. L’arte e la musica hanno sempre avuto il sopravvento e anche adesso con in miei figli non si parla d’altro».
Davvero?
«Mio figlio Francesco scrive e canta e ha debuttato con me in “Stelle a metà”».
Di padre in figlio… Non ha mai avuto momenti di sconforto?
«Sì, da adolescente, dopo tutto il successo ottenuto con mio padre, ho provato un senso di grande abbandono. Ecco, forse quella volta ho pensato per un attimo di cambiare mestiere, ma poi mi sono detto: e cosa faccio?».
Abbandono perché?
«Ci sono persone a cui mio padre ha dato da mangiare che quando mi vedevano cambiavano marciapiedi. Le stesse che adesso mi chiamano maestro».
Opportunismo?
«C’è sempre stato. Provincialismo della mente, pure».
Chi l’ha aiutata?
«La mia famiglia mi ha sempre sostenuto e consigliato. Mia mamma e, prima ancora, mia nonna mi dicevano sempre: frequenta persone migliori di te che ti possano aiutare a crescere. E mia moglie e mio fratello mi hanno convinto ad accettare la proposta di Roberto De Simone in un momento difficile, in cui avevo lasciato il teatro e facevo solo dischi».
Rifiutare una proposta da De Simone, possibile?
«No. Infatti, accettai e con “L’opera buffa del Giovedì Santo” feci tre anni di tournée».
Che ricordo ha di lui?
«Il ricordo di un genio. Voleva un cantante di rottura e io cantai “Vulesse sagli’ ’n Cielo” di Pergolesi. Si commosse fino alle lacrime e me lo disse: “Mi avete fatto commuovere, grazie Sal”. Ancora oggi quando ci incontriamo mi dà del voi».
E lei?
«Io resto basito».
I grandi. Poi seguì l’incontro con Claudio Mattone ed Enrico Vaime, che la vollero in “C’era una volta… Scugnizzi”, una sorta di consacrazione.
«“Scugnizzi” mi ha cambiato la vita. E da quel momento cominciai anche a produrre i miei spettacoli. “Io + Voi = Noi/Il mercante di stelle”, con la regia di Gino Landi, fu uno di questi».
“Il mercante di stelle” è pure il titolo di un album di svolta.
«Senz’altro il brano è autobiografico ma poi è un’autobiografia che appartiene a tutti come a tutti appartiene il rapporto della vita con i sogni. Io sono fortunato perché faccio il mestiere che amo».
Non come Vera, la protagonista della canzone omonima con cui vinse il Festival Italiano di Musica presentato da Mike Bongiorno, che fa una “vita di quartiere dove è difficile sperare, dove è più facile cadere e non alzarsi più”.
«Ma anche qui c’è un messaggio di speranza. Vera è l’immagine di una donna che resiste e sogna in grande in un quartiere in cui tutto è difficile».
Articolo a cura di Alessandra Bernocco