Risale a una decina di anni fa il personaggio della giovane madre di un adolescente problematico in “Short Skin”, opera prima di Duccio Chiarini, realizzata con low budget e presentata a Venezia. Bianca Nappi, attrice poliedrica di teatro, cinema e televisione, consacrata da Ferzan Ozpetek, non era ancora mamma nella vita ma si muoveva, unica adulta, in un selvatico mondo di ragazzini alla prima esperienza di amore e di set.
Ora invece si muove in un mondo di piccoli e grandi delinquenti, tra traffici di armi e di droga, in cui gli adolescenti non sono alle prese con innocenti esperienze di sesso ma girano armati di kalashnikov. Parliamo de “Il metodo Fenoglio – L’estate fredda,” la serie tratta dai romanzi di Gianrico Carofiglio e diretta da Alessandro Casale in onda su Rai Uno, con Alessio Boni nei panni di un pacifico maresciallo di origini piemontesi che si ritrova nella Bari dei primi anni Novanta, in mezzo a guerre tra clan e malavita organizzata. Bianca anche qui interpreta una madre. Che però è anche moglie del boss più potente di Bari.
Bianca, com’è questa madre, tale Tonia Grimaldi?
«Innanzitutto è una madre a cui hanno rapito un figlio. Il rapimento è il cuore dell’indagine che ha riservato e riserverà ancora colpi di scena non positivi. Tonia è un personaggio da tragedia, legata sì alla criminalità ma con una doppia vita che verrà fuori man mano».
Cosa l’ha catturata della scrittura di Carofiglio?
«La compresenza di bene e male. Il bene e il male non sono assoluti e la loro alternanza è molto ben rappresentata dal mio personaggio, che è scuro, cupo, ma forse non completamente negativo. Consideri che il romanzo si rifà a fatti veramente accaduti e racconta un pezzo di storia del nostro Paese».
Dove la compresenza tra bene e male persiste, a scapito del bene. Sbaglio?
«Io voglio ancora propendere per il bene, sennò ci saremmo già estinti; però, mi rendo conto che ce la stiamo mettendo tutta…».
La Puglia è la terra dov’è cresciuta ma fa anche da sfondo a molti suoi lavori. Penso, per esempio, a “Mine vaganti”, che metteva al centro una famiglia pugliese. Qual è la sua Puglia del cuore?
«Io sono nata a Trani e la mia Puglia è lì, tra la mia città e Bari, ma anche la Valle d’Itria, tra il barese e il Salento: una zona di passaggio, dove ci sono i trulli e il mare è stupendo. Ho ricordi bellissimi di vacanze con le amiche quando i trulli non erano ancora di moda e si potevano affittare a poco. Adesso la regione è molto cambiata, da un punto di vista artistico-culturale e turistico».
Sempre a Bari è ambientata la serie “Le indagini di Lolita Lobosco”, diretta da Luca Miniero con Luisa Ranieri nel ruolo di una vicequestore che si deve far valere in un ambiente maschile e lei in quello di una magistrata decisamente sopra le righe, con un rapporto parecchio libero con gli uomini, direi inclusivo. Eppure è la sua migliore amica…
«Il rapporto tra Lolita e Marietta è un aspetto molto apprezzato dal pubblico perché è un racconto di amicizia al femminile non scontato nella serialità televisiva italiana. Si conoscono da una vita, condividono un percorso professionale e, pur rappresentando due tipi di femminilità completamente diverse, vanno d’accordo».
Secondo lei nella vita quotidiana ci sono più Lolite o più Mariette?
«Credo più Lolite, cioè più donne realizzate professionalmente che però faticano a far quadrare il cerchio nella vita sentimentale. In questo senso, Lolita è un personaggio molto contemporaneo».
Nel 2014 interpretò a teatro due testi di Neil LaBute, il primo dei quali, “Re(L)azioni”, affrontava il problema della violenza di genere. Dieci anni dopo non è cambiato niente, anzi, siamo di nuovo qui a parlarne. Mentre molti irridono persino alla parola patriarcato.
«Una questione delicata, quella del patriarcato. Che esiste ed è un grande problema, non solo dal punto di vista dell’uomo e della donna ma della società tutta. Io credo che per modificare il modo di sentire occorrano tanto tempo, educazione, esempio in casa, articoli di giornali, libri: se ne deve parlare. Dopodiché ci diciamo al sicuro? Chissà».
Sembra una battaglia persa.
«È in atto una guerra tra i sessi in cui un certo “maschile” attacca il “femminile”: una reazione prevedibile, visto lo spazio che ci stiamo prendendo. Mia nonna e mia madre non facevano la vita che faccio io. Ma si sta pagando un prezzo inaccettabile che non avevamo messo in conto. Eppure l’intraprendenza delle donne sarebbe un vantaggio anche per gli uomini. Per fortuna alcuni lo capiscono, ma l’allarme sociale esiste ed è importante».
Di fronte al femminicidio di Giulia si è sollevato il Paese. E la sorella che ha reso pubblico questo dolore è stata considerata da molti una novella Antigone. Cosa ne pensa?
«La sua reazione mi ha colpita parecchio, positivamente. L’ho ammirata come va ammirato chi, davanti a una tragedia personale, ha l’intelligenza e la forza per esprimere un messaggio più grande. Il suo è stato un gesto politico: trasformare il dolore personale in un pensiero collettivo. Anche se non penso che questa tragedia e questa morte riguardino solo il problema del patriarcato».
Una sua collega, Giovanna Mezzogiorno, ha recentemente lamentato di essere stata vittima di body shaming sul set e di essere stata scartata da diversi registi a causa dei chili presi in gravidanza. È così difficile superare gli stereotipi del corpo femminile?
«Mi permetto di allargare il discorso dal corpo all’età perché a volte sembra che avere più di trent’anni sia un peccato da scontare. È vero che stiamo migliorando ma c’è ancora tanta strada da fare e con i nostri tempi italici, mediterranei, il cambiamento non è dietro l’angolo».
Allora, in segno di ottimismo, voglio chiudere con il ricordo di una grandissima attrice con cui lavorò in “Mine vaganti”, Ilaria Occhini, che interpretava una saggia e splendida nonna.
«Ricordo la classe e un’ironia tutta sua, molto fiorentina. Io ero quasi sconosciuta in mezzo ad attori di grande esperienza e popolarità e lei con me fu davvero affettuosa».
Articolo a cura di Alessandra Bernocco