Gino Cecchettin s’è accorto che erano quasi le due di notte e Giulia, la sua bambina, non era a casa. Bambina nonostante i ventidue anni e la laurea imminente, bambina benché morta la mamma fosse diventata lei perno di casa. Si è sempre piccole, agli occhi d’un papà, e Gino, tuttavia, non s’è preoccupato: capitava, i sabati, che Giulia tardasse un poco e mai aveva dato problemi. Il batticuore l’ha assalito al mattino, davanti a un letto intatto e a un telefonino muto: ha cominciato a cercarla, in bilico tra ansia e speranza, finché giorni dopo, da un canale vicino, non è affiorato un giovane corpo martoriato.
Giulia che stava per diventare ingegnere però sognava di fare l’illustratrice, che collezionava pupazzi e tappi di bottiglie, che amava le fiabe e un impermeabile giallo, le passeggiate e la letteratura inglese, gli era stata portata via dal ragazzo che sosteneva d’amarla, incapace di accettare la fine del rapporto, trasformato da una gelosia malata in spietato assassino. Gino ha pianto e imprecato, soffocato rabbia e ingoiato lacrime, affrontato con dignità e coraggio la prova durissima che la vita gli ha riservato. Parole smozzicate quando l’angoscia dell’attesa è diventata tragica consapevolezza d’un addio, distribuite in interviste pacate e profonde, riordinate in una lettera che trasuda dolore e amore e diventa, da commiato intimo, appello e lezione.
Gino Cecchettin racconta la frustrazione di non aver saputo proteggere la sua bambina spaventata, di non aver potuto impedire la violenza, confida la commozione di un abbraccio nella bara e delle mani fasciate strette nelle sue, ringrazia «l’immensa ondata di coscienza civile» determinata nel Paese dalle parole dell’altra figlia, Elena, parla del figlio maschio Davide, il suo sostegno, e di Monica, moglie e mamma, che non c’è più, ricorda Giulia che stirava ascoltando musica, che era una combattente, che emanava vivacità e allegria, ma poi si rivolge agli uomini perché diventino agenti di cambiamento contro la violenza di genere, ai genitori perché educhino, alla scuola perché insegni il rispetto, alla politica perché si compatti e superi le differenze di genere. «In questo momento di dolore e tristezza – dice -, dobbiamo trovare la forza di reagire, di trasformare questa tragedia in una spinta per il cambiamento. La vita di Giulia, la mia Giulia, ci è stata sottratta in modo crudele, ma la sua morte, può, anzi deve essere il punto di svolta per porre fine alla terribile piaga della violenza sulle donne. Che la memoria di Giulia ci ispiri a lavorare insieme per creare un mondo in cui nessuno debba mai temere per la propria vita».
La postilla è un impegno e un’invocazione: «Ciò che mi preme ora è fare in modo che, finita l’emozione, non ci si torni ad assopire. Noi italiani siamo bravi ad avere slanci civili ma siamo anche capaci di dimenticare in fretta. Il rumore è il campanello che ogni mattina ci deve tenere svegli e farci chiedere cosa abbiamo fatto per far finire i femminicidi».
Non pensa di riuscire a perdonare Filippo, l’assassino, («Sarà difficile, spero solo si renda conto di ciò che ha fatto») ma ai suoi genitori si rivolge con delicatezza, mostra vicinanza: «Hanno avuto, se possibile, una disgrazia più feroce della mia».
La lezione di Gino
Il papà di Giulia Cecchettin si rivolge agli uomini, alla scuola, alla famiglia, alla politica: chiede, fondendo amore e dolore, che la tragedia di sua figlia diventi svolta perché cessi la piaga del femminicidio