Chiacchierare con Peppe Barra è un po’ come entrare in un museo dove non hanno mai smesso di vivere e respirare anime e corpi che noi ascriviamo a un orizzonte perduto. Noi, rassegnati a un tempo in disfacimento dove arte e bellezza devono venire a patti col più svilito mercato, restiamo catturati dalla semplicità dei grandi. Nino Rota, Federico Fellini, Eduardo, Roberto De Simone, Maurizio Scaparro, Fabrizio De André, che “Bocca di Rosa” gliela consegnò nelle mani dopo avere assistito alla sua versione in napoletano: «Adesso è tua, te la regalo». Li ha conosciuti tutti, di tutti è stato amico e di tutti conserva ricordi preziosi, intimi e condivisi, vitali più che mai. Com’è vitale la sua antica febbre di palcoscenico che gli permette di affrontare, con immutato entusiasmo, quella chicca senza tempo che è “La cantata dei pastori” (sottotitolo “Per la nascita del verbo umanato”), uno spettacolo di teatro e musica firmato Peppe Barra e Lamberto Lambertini, derivato da una sacra rappresentazione di fine Seicento. Tema: il viaggio di Maria e Giuseppe verso Betlemme, la nascita del Bambino tra diavoli sconfitti e angeli vittoriosi, l’adorazione dei pastori. Più due figuri bislacchi, che sono Razzullo e Sarchiapone, scrivano il primo, inviato in Palestina per il censimento, barbiere fuggiasco il secondo, con due omicidi sulle spalle.
Barra, cosa si deve aspettare chi ancora non conosce lo spettacolo?
«Quella che portiamo in scena da due anni è una versione molto rinnovata rispetto alle precedenti: nuove scene, nuovi i costumi e le musiche, nuovi gli attori e i cantanti. Più asciugata, ma viva, ricca, colorata».
Ormai il suo Razzullo ha quasi cinquant’anni: immagino si sia rinnovato anche lui…
«Certo, è chiaro che il personaggio si adatti a tutte le sfaccettature della storia dell’Italia e del nostro Sud e diventi tutt’uno con una modernità che ci riguarda da vicino».
Cosa andrebbe a fare, oggi, Razzullo, in Palestina?
«A portare un messaggio di pace. Nel senso che il più grande messaggio che questa favola d’amore può portare oggi è la pace, la luce».
E il suo compare Sarchiapone, ora interpretato da Lalla Esposito?
«Sarchiapone è un personaggio successivo rispetto all’edizione originale del 1698, aggiunto dal popolo napoletano a fine Settecento con un intento comico. È il goffo, il maligno, soprattutto è il folle, perché la sua follia rispecchia quella del mondo popolare napoletano, data dal Vesuvio, che è energia ma anche, appunto, follia, nella sua portata esorcizzante».
Cosa c’è da esorcizzare?
«Tutto quello che può danneggiare. Il popolo napoletano ha resistito a invasioni, occupazioni di ogni tipo e se non avesse una buona dose di follia non ce l’avrebbe fatta».
Per questo si dice che Razzullo e Sarchiapone rappresentino un po’ l’uno il doppio dell’altro, due facce della stessa medaglia, due figure speculari che parlano la stessa lingua?
«La lingua napoletana, infatti. Che fa parte di un mondo folle e fantastico ma anche armonioso, musicale, pieno di fonemi che arrivano ad abbracciare quelli di tante altre lingue».
Eppure nonostante la lingua sia così scolpita e così ricca, la comunicazione non fa a meno della gestualità.
«La gestualità fa parte della lingua proprio perché è una lingua inclusiva. La gestualità ha aiutato a farsi capire dai popoli occupanti. Senza il dono della gestualità non sarebbe stata possibile una vita di comunità».
Ci racconta di quella volta a Venezia, quando sua madre Concetta, attrice e cantante, fece la sua comparsata dopo anni di pausa dalle scene, nel suo assolo, “Peppe e Barra, scherzo in musica”, fortemente voluto da Maurizio Scaparro?
«Era il 1982, durante il Carnevale, ed è stato il suo ritorno in scena, a sorpresa. Dopodiché nacque la nostra compagnia che durò finché non è volata via».
Ci lascia un ricordo di Concetta Barra?
«Non ci siamo mai staccati, sta sempre con me, nel mio teatro, nella mia follia. Quando cantavamo insieme erano momenti di dolcezza ineffabile. La sua particolarità era l’autoironia, sulla sua magrezza, sulla vecchiaia, sul suo modo di recitare. Per questo è sempre stata molto amata dal pubblico».
E un ricordo di Scaparro?
«Un regista che amava gli attori, dava loro libertà, non ne invadeva la creatività».
Eduardo?
«Una persona meravigliosa, ci amava molto. Ricordo le serate nella sua casa di Posillipo, con sua moglie, con Luca».
Invece era ancora un bambino quando ha incontrato De Simone, l’autore, tra la l’altro, della “Gatta Cenerentola”, di cui lei fu protagonista.
«Allora De Simone era molto divertente. Poi con gli anni è diventato più severo, soprattutto con se stesso. È uno studioso e un musicista eccezionale. Come Nino Rota, una persona splendida, che brillava di luce propria».
È ottimista sul futuro del teatro?
«Non riesco ancora a capire dove stiamo andando. Nonostante la mia età. Mi auguro qualcosa di positivo ma cosa non so dire».
È storia o leggenda che lei sia nato al Teatro Valle?
«Mia mamma era in scena al Valle quando le si sono rotte le acque. Sono nato a due passi da lì».
Ci vuole lasciare un pensiero su questo teatro magnifico che ha visto il debutto de “I sei personaggi in cerca d’autore” e che ora, ahimè, è chiuso agli artisti e al pubblico?
«L’ha detto lei: ahimè. Uno dei teatri più importanti d’Italia abbandonato nel nulla».
Un suggerimento?
«Recuperatelo. In fretta».
Sono ormai dieci anni che è docente honoris causa in Letteratura, Scrittura e Critica Teatrale presso l’Università Federico II di Napoli. Dei giovani che impressione ha?
«Naturalmente dipende dai giovani, ma la maggior parte degli studenti sono recettivi, affamati di sapere. E questo mi ripaga da altre delusioni nel mondo del teatro».
Cosa direbbe oggi il Grillo Parlante del “Pinocchio” di Roberto Benigni a cui diede vita vent’anni fa?
«Oggi direbbe cose brutte che io non voglio dire. Con queste guerre atroci, questo dolore nell’aria, il Grillo si rifugerebbe nei suoi buchi nel prato e non uscirebbe più. I buoni consigli non vengono ascoltati».
Articolo a cura di Alessandra Bernocco