«Vi racconto com’è vivere in israele in tempo di guerra»

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«Sono piemontese d’adozione, nato a Pavia e cresciuto a Biella». Elia Milani è corrispondente di Mediaset da Israele, uno di quelli che raccontano la guerra di Gaza con maggiore puntualità e com­petenza. Gli abbiamo chie­­sto di raccontarci il clima che si vive in questi giorni di guerra e – al tempo stesso – di vigilia natalizia a Gerusa­lemme, dove ha stabilito la sua base.

Come è cominciata la sua carriera giornalistica?
«All’università ho frequentato tre anni di storia a Vercelli avendo come docente il professor Ales­sandro Barbero. Alla prima lezione mi sono detto: che spettacolo l’università! Lui era bravissimo. Poi ci sono stati i due anni di antropologia culturale a To­rino, quindi il master di giornalismo a Milano. Lì facevamo stage propedeutici, uno a TeleLombardia e uno a Tg­com24, nel 2011. Da allora non sono più uscito da Me­diaset».

Finché, in una diretta, sono rimasti tutti sorpresi perché lei traduceva dall’arabo…
«Sono 15 anni che studio arabo. Ho iniziato a Torino, anzi già all’università popolare a Biella mentre lavoravo. Era un corso molto basic, ma il primo libro letto in arabo risale ad allora. Perché il mio interesse? Dopo l’11 settembre mi facevo tante domande su cosa fosse accaduto. Ho studiato e la mia tesi – discussa a Torino – l’ho scritta a Damasco, in Siria, prima della guerra. Lì gli studi sono di­ventati più approfonditi e so­no stato anche a Beirut, in Libano. Da 6 anni vivo qui a Gerusalemme».

Studiare una lingua è capire la cultura di un popolo?
«Quando ho iniziato non ero mai stato in nessun paese arabo, solo in Egitto ma per vacanza. Le diverse sfumature di una lingua ti fanno en­trare in mondi nuovi, l’arabo è difficile e richiede molta pratica ma è la chiave che mi ha permesso di comprendere questa cultura, mi ha aperto molte porte in Medioriente».

Quanto è stato difficile?
«Per capire, qui c’è il fenomeno della diglossia, cioè la lingua che si studia non è quella parlata. Varia nei diversi pa­e­si: Marocco, Tunisia e Algeria hanno similitudini ma non è arabo classico, più vicina la lingua usata in Egitto, Siria, Palestina o Libano. Io ho iniziato proprio con la lingua “classica”, quella dei telegiornali e dei quotidiani ma che non si usa per strada. Mi dicevano: parli come un anziano, uno shaikh (cioè sceicco, che poi significa persona saggia). Allora mi sono messo a studiare i dialetti e ogni volta è una scoperta. Il mio cameraman mi ha appena detto una parola che non avevo mai sentito…».

E a Gerusalemme come si parla?

«Dipende in quale zona ti trovi. Se vivi a ovest senti po­che parole arabe, si parla ebraico. Poi ci sono anche arabi israeliani, certo, ma è a est che si usa di più l’arabo. In generale, quindi, conviene conoscere un po’ dell’una e dell’altra lingua. Soprattutto adesso con la guerra».

Com’è la situazione in città?
«È complessa. Difficile che ci siano interscambi genuini e frequenti tra le comunità. Ognuno resta con i suoi simili: ebrei, sefarditi, etiopi, cristiani e musulmani. Poche le occasioni d’incontro. Il problema è che a Gerusalemme ci sono poche persone che costruiscono “ponti”. Non ci si conosce neanche tra vicini. Vale pure per i giovani: chi abita ad appena un chilometro dalla parte est, non è mai andato di là».

E a livello politico?

«È ancora un’altra storia, per capire gli equilibri serve vivere qui almeno un anno. Io dopo gli studi universitari, credevo di sapere tutto e invece quando sono arrivato mi sono reso conto che non sapevo quasi nulla. Dopo tre anni, ho cominciato a vederci più chiaro».

Ci sono possibilità per una mediazione?

«Adesso no, quello che sta succedendo è l’inizio di un grande cambiamento. Prima c’era qualche scambio, vedevi donne arabe velate che venivano a ovest per lavorare. Ce ne saranno sempre meno. Prevale la diffidenza, quelli che sono stati attaccati nei kibbutz il 7 ottobre in generale aiutavano persone dentro Gaza, facevano parte della si­nistra schierata contro Neta­nyahu. Però molti sono stati uccisi. Se hanno perso la fiducia persone così, figuriamoci dalla parte dell’estrema de­stra che odiava già tutti gli arabi…».

Un inasprimento totale?
«Sì. Dopo l’attacco, con il mio cameraman, siamo andati al confine con Gaza e nel tragitto siamo stati spesso fermati da ragazzi in macchina che ci dicevano: siete di Al Jazeera? Siete arabi? Vi ammazziamo. Io ribattevo: no, sono italiano! E ci lasciavano andare. Ma se parli con un palestinese ti dice che Hamas sta rispondendo ai soprusi compiuti dentro Gaza e in Cisgiordania dal ‘67. Le posizioni sono radicalizzate».

E come viene giudicato il premier Netanyahu?

«Di sicuro, quando finirà l’emergenza, sarà messo sot­to inchiesta. Almeno metà della popolazione israeliana non lo ama. Ma adesso, in guerra, c’è un fronte comune contro il nemico. Emergono comunque segnali di spaccatura all’interno del governo stesso. Prima del 7 ottobre c’erano state proteste oceaniche nelle strade proprio contro Netanyahu. È considerato il responsabile della falla nel sistema di sicurezza israeliano che ha consentito gli attacchi di Hamas. Ma adesso è a rischio l’esistenza stessa di Israele, non solo per i razzi da Gaza: se dovessero arrivarne dal Li­bano, cambierà ancora lo scenario».

Biden ha detto che i bombardamenti sconsiderati faranno perdere a Israele il sostegno internazionale.

«Gli israeliani rispondono: andiamo comunque avanti per la nostra strada, non possiamo permettere che si ripetano gli eventi di Gaza. Certo, facendo attenzione che lo strappo non si faccia troppo grande, perché gli Usa possono sempre fermare l’invio di armi. Ora c’è un carico destinato alla polizia, fermo da un po’. Gli americani possono fa­re pressione in maniera graduale».

Ci sono altre figure internazionali che potrebbero intervenire?
«Solo gli Usa possono fare pressione, specialmente dal punto di vista economico. Si dice spesso che Israele sia il 51esimo stato americano, il supporto è sempre stato assoluto. La campagna elettorale di Biden è come un countdown già avviato, lui non vuole un paese in guerra perché l’elettorato democratico non approverebbe. Ecco il motivo per cui ha usato quelle parole pesanti. Il consigliere Sullivan ha fatto una serie di incontri, l’esito è stato che si andrà avanti con questa fase di alta intensità della guerra per qualche mese, ma quando sarà più bassa si dovrà cercare una soluzione».

E sul fronte arabo?

«Gli unici che possono fare leva sono Qatar ed Egitto. Il primo finanzia Hamas e ha voce in capitolo. Nessuno sa dove sia Yahya Sinwar, il ca­po di Hamas, forse è nascosto a Gaza ma altri leader sono in Qatar. Invece l’Egitto è da sempre il Paese mediatore per eccellenza. Ma recentemente il direttore del Mossad, David Barnea, avrebbe dovuto in­contrare i vertici qatarioti ed è stato fermato».

Come sarà il suo Natale?

«Mia figlia e mia moglie sono partite il quarto giorno della guerra per rientrare a Biella, i miei suoceri anche. Io ho il volo fissato per l’Italia il giorno di Natale. Poi tornerò a Gerusalemme».

CHI È

Racconta la guerra tra Israele e Palestina spesso sotto i missili. Durante un collegamento su Rete 4 con la trasmissione “Diario del giorno”, si sono visti i razzi lanciati da Gaza verso Israele

COSA HA FATTO

Dopo il liceo scientifico a Biella, si è laureato all’Università degli Studi del Piemonte Orientale per prendere il Master in Cultura Antropologica a Torino. Dal 2012 è reporter per le reti Mediaset

COSA FA

È corrispondente Mediaset e lo vediamo spesso nei collegamenti in diretta dal confine con Gaza. Sa di cosa parla: vive da 6 anni a Gerusalemme e conosce perfettamente l’arabo