«Non so quando e non so come ma farò quel lavoro lì». Quel lavoro lì sarebbe l’attrice e la folgorazione avvenne dopo avere visto recitare Anna Proclemer, una signora della scena come non ne nascono più. Un faro che ha segnato i momenti più belli del nostro teatro e ha orientato la carriera di molte giovani attrici. Anna Ferruzzo è tra loro, preda felice di una vocazione precoce in una famiglia tarantina Doc, dove il mestiere di attrice non era nemmeno un’ipotesi. Invece il teatro sarebbe arrivato di lì a poco, ingaggiata da una compagnia della sua città, e a ruota anche il cinema e la televisione. È recente la sua interpretazione accorata della madre di Elisa Claps nella miniserie diretta da Marco Pontecorvo, “Per Elisa – Il caso Claps” per cui ha riscosso un successo anche personale.
Anna, la sua famiglia si è fatta una ragione?
«Non mi hanno mai ostacolato ma questo lavoro ho dovuto conquistarmelo. La mia famiglia non aveva una formazione teatrale, non ero avvantaggiata. Però già la mia insegnante sceglieva me per leggere Dante, a diciotto anni ho iniziato a frequentare i primi laboratori e a ventisei a lavorare con Crest (acronimo di Collettivo di Ricerche Espressive e Sperimentazione Teatrale, nda), una cooperativa molto attiva nell’ambito del “teatro ragazzi”, con cui ho fatto lunghe tournée e spettacoli importanti. Credo che il “teatro ragazzi” sia un momento di crescita per un attore perché i ragazzi non hanno filtri: se il pubblico rumoreggia è probabile che sia tu che sbagli».
Ora cosa rappresenta il teatro per lei?
«La mia vera casa, il posto dove mi sento a mio agio. Il teatro è un viaggio meraviglioso che si compie quando entri in scena e, a differenza del cinema e della televisione, il ritorno da parte del pubblico è immediato».
La disturbano i tempi lunghi del cinema?
«È che fatico a rivedermi, non mi piaccio quasi mai. Ma forse anche questo è il narcisismo dell’attore, essere ambiziosi e trovarsi sempre imperfetti».
Però il cinema le ha offerto occasioni importanti. Penso per esempio a due film recentissimi come “L’invenzione della neve” e “Palazzina Laf”.
«Il cinema rispetto alla televisione mi dà più possibilità, più tempo per studiare e l’occasione di confrontarmi con personaggi non stereotipati».
Come la magistrata di “Palazzina Laf”, il film diretto da Michele Riondino, ambientato nella Taranto dell’Ilva degli anni Novanta.
«Un personaggio che rende omaggio alla donna magistrato che nel 2000 riuscì a bloccare l’altoforno più pericoloso di Taranto. Una donna che si è fatta valere combattendo una battaglia importante, anche se purtroppo non riuscì a vincerla. Per questo, la figura del magistrato che nella realtà era un uomo, nel film è la donna che interpreto io».
Lei, tarantina, come si pone di fronte al conflitto tra salute e lavoro?
«È il problema dei problemi e a Taranto trova la sua massima espressione. Con l’Ilva la città fu inebriata dalla quantità di denaro che circolava ma poi i danni cominciarono a farsi sentire e la cittadinanza ne prese consapevolezza».
Ha dei ricordi personali legati a questa fabbrica?
«A scuola quando disegnavo la mia città c’erano sempre le ciminiere sullo sfondo e a volte ci portavano a vedere i nastri trasportatori. A Taranto l’acciaieria è proprio dentro alla città e tutti i rioni ne sono interessati».
Riondino in un’intervista ha detto che le liti in famiglia tra ecologisti e lavoratori erano all’ordine del giorno.
«Infatti. Anche perché Taranto è una città splendida, il mare è uno dei più belli d’Italia, basta allontanarsi di pochi chilometri. Ma l’inquinamento ha prodotto non solo un alto tasso di morte e malattia ma un arresto dell’economia su più fronti, soprattutto su quello turistico».
Non vorrei sembrare blasfema, però mi domando la fine delle cozze tarantine, considerate tra le migliori in assoluto…
«Anche in questo caso la produzione ha subìto un arresto, inficiata dall’inquinamento delle acque di scarico. I mitili vivono di quel che passa il mare…».
Secondo lei c’è una soluzione per salvare la fabbrica e anche l’ecosistema?
«La quantità di denaro da investire per bonificare l’una e l’altro è tale che nessun privato lo farà. La fabbrica chiuderà per consunzione lasciando la città senza lavoro».
Brutta prospettiva. Torniamo alla famiglia, anzi, alle famiglie. Perché è vero che non è nata in una famiglia di teatranti ma è poi entrata con tutti gli onori. Insomma, ha sposato Massimo Wertmuller, bravo attore di cinema e teatro nonché nipote della celebre Lina. Com’era il vostro rapporto?
«L’ho sempre ammirata tantissimo, anche per la determinazione che riusciva ad avere in un mondo prevalentemente maschile. Era una donna con delle durezze, che però nascondevano una fragilità che io riuscivo a leggere».
Ed è pure riuscita a lavorarci in “Mannaggia alla miseria”, il film sul microcredito per la televisione.
«Un piccolo ruolo nato quasi per caso».
Invece suo marito in veste di collega vi aveva definite due generali. Diretto dalla zia e una volta anche dalla moglie (ricordo bene lo spettacolo su Boris Vian da lei diretto in una chiesa di Caserta Vecchia, dove grondavate di sudore e fatica), aveva detto: «Il primo vaffa era sempre il mio».
«Io e Massimo abbiamo modi di lavorare completamente diversi e dirigerlo era stato faticoso. Lui è un maestro di improvvisazione, io sono metodica. Per lui il teatro è divertimento, per me è magia, ma dietro alla magia ci sono studio, padronanza dei mezzi, memoria. Le nostre strade sono ben disegnate ma opposte. Dopodiché ci ritroviamo a casa, felicemente».
Ha lavorato con registi come Gabriele Salvatores, Giuseppe Tornatore, i fratelli Taviani. Con chi vorrebbe lavorare oggi?
«Con Matteo Garrone: amo il suo modo di fare cinema, il suo linguaggio, le sue storie. Non c’è un solo film che non abbia apprezzato, da “L’imbalsamatore” in poi».
Perché non si propone?
«Perché sono fatta così. Bisogna essere capaci, di proporsi, e io non lo sono. Sono fatalista, ma cerco sempre di fare del mio meglio».
Gli amanti di Beppe Fenoglio la ricorderanno in quella scena di “Una questione privata”, sotto un albero con Luca Marinelli. Che ricordo ha di quel set?
«Ricordo il grandissimo freddo, il vento che ci tagliava la faccia e noi che non riuscivamo nemmeno ad articolare le parole. E ricordo le attese lunghissime perché la macchina che doveva produrre la nebbia finta si era inceppata. Ma il cinema è anche questo: un grande meraviglioso imbroglio».