Home Articoli Rivista Idea «Il mio Galileo crede nell’uomo, nonostante tutto»

«Il mio Galileo crede nell’uomo, nonostante tutto»

0
2

Ha lavorato con i più grandi e dei più grandi è sta­to allievo e compagno di scena. Vittorio Gas­sman, Giorgio Albertazzi, Ora­­zio Costa, Giulia Laz­za­rini, Umberto Orsini, ma an­che il più giovane Gabriele La­via da cui è stato diretto in ben quattro Shakespeare, un Molière e la tragedia delle tragedie, ovvero la sofoclea “Edipo re”. Ha frequentato il repertorio del teatro di prosa a 360 gradi, passando dai classici ai contemporanei italiani e stranieri, compreso Jon Fosse, Premio Nobel in carica, quando in Italia era perlopiù sconosciuto. Luca Laz­za­reschi ha sessant’anni e quaranta di carriera. Attore, regista e per cinque anni direttore di uno dei festival teatrali più prestigiosi in Italia, la Versi­liana, ha interpretato, tra l’altro, il personaggio autistico che fu di Dustin Hoffman in “Rain Man” e Guglielmo da Baskerville nella versione tea­­trale de “Il nome della ro­sa”. Un ruolo che ha irresistibili rimandi con quello di Ga­lileo con cui è ora in scena al Tea­tro Vascello di Roma: “Pro­­cesso Galileo”, spettacolo complesso che da due anni re­gistra un successo trasversale, dal pubblico alle scuole.

Un Galileo di confine, che te­stimonia il presente e guarda al futuro e forse lo paventa. Lazzareschi, il futuro ci fa sempre più paura, vero?
«Sì e questo Galileo lancia pre­­visioni che sono molto at­tuali, purtroppo. Lo scienziato che conosciamo sconvolse l’ordine costituito ma la sua rivoluzione avvenne grazie all’osservazione dell’universo, I Galilei di oggi agiscono sulla realtà e la trasformano».

Infatti si parla di energia atomica, di Hiroshima.
«E si cita Prometeo per dire che l’uomo ha trasformato la natura in uno strumento al proprio servizio».

Inventando armi di distruzione ma non solo quelle. Il libero arbitrio è una responsabilità…

«Appunto. Perché le ricerche sull’atomo hanno anche permesso, per esempio, di riconoscere le cause di certe ma­lat­tie, di trovare le cure. Pen­siamo alla pandemia: la politica ha dovuto chiedere aiuto alla scienza che ha individuato il vaccino. Ai tempi di Ga­lileo questo non sarebbe stato immaginabile».

E questo significa che il progresso scientifico non si deve arrestare. Mi sembra però che lo spettacolo lanci questo mes­saggio con le dovute riserve. Il pericolo è anche l’intelligenza artificiale.

«Il percorso della scienza non si può fermare ma a questo punto della storia del mondo bisognerebbe forse porci un limite. Non lo dice lo spettacolo ma molti scienziati. Fer­ma­tevi un attimo perché il mon­do non è pronto a fare i conti con un oggetto pensante che non si sa dove ci potrà portare. L’intelligenza artificiale rappresenta davvero uno snodo epocale dell’umanità».

Ma ricadiamo a filo di piombo nel libero arbitrio. Il problema è etico. Lei è padre di un bambino di sette anni. È preoccupato?
«Parecchio, ma sto con lui co­me se fosse un piccolo adulto, leggiamo e guardiamo molti film, non solo cartoni animati. Faccio in modo che non usi Play Station e cellulare, la ve­ra cancrena per tutti. Un pericolo enorme sia perché sui social si può trovare di tutto sia perché prevedono un’attitudine passiva. Anche per noi adulti, ci rubano tempo e concentrazione accarezzando il nostro ego con inutili like».

Non mi vorrà far credere che del consenso non le importa niente…

«Certo che mi importa ma del consenso nel merito. Per un attore fa parte del gioco. Sui social invece si va in cerca di consenso se posti la foto di un gatto o di un piatto di spaghetti. È terribile perché agiscono sulla nostra parte più debole».

Lo spettacolo invece sfiora anche questioni più intime, legate alla vita e ai rapporti tra le persone. Cos’è per lei la felicità?
«Vedere la bellezza della scoperta negli occhi di mio figlio quando impara le cose».

Bellissimo. E la bellezza? Il suo segreto è nascosto in proporzioni numeriche come si dice nel testo?

«Per me la bellezza è nell’intelligenza dell’uomo e nella na­tura. Credo che la natura, anche nella sua efferatezza, rappresenti la bellezza».

E riuscirà, la bellezza, a salvare il mondo?
«Temo di no. E anche questa frase di Dostoevskij va forse capita e interpretata in modo più profondo».

C’è un nichilismo, alla fine, una provocazione, in cui l’abiura di Galileo si estende a tutto quello che ci riguarda, anche di buono, forse soprattutto, di buono: abiuro la de­mocrazia, la parità, le bandiere, gli scioperi, le manifestazioni. Lo condivide?
«Rispondo con Gramsci: ottimismo della volontà e pessimismo della ragione».

Volo pindarico ma nemmeno poi tanto: quanta volontà è servita per mandare a memoria un testo così fitto, verboso, complesso?
(Ride o finge di ridere, nda) «Il linguaggio secentesco è difficilissimo, la costruzione è ancora latina e si parla di contenuti complessi».

Ma io intendevo anche il prosieguo. Ci parli di questo testo…

«Infatti il linguaggio secentesco riguarda solo il prologo: ot­to minuti che introducono al­la drammaturgia originale firmata da Angela Dematté e Fabrizio Sinisi, due scritture autonome che però convergono in un disegno generale ar­mo­nico, la prima più naturalistica, la seconda poetica, in versi. Anche le regie di Car­melo Rifici e Andrea De Rosa sono indipendenti ma fuse in uno spettacolo unico».

E gli orticelli che disseminano la scena quale ruolo hann
o?
«L’orto è legato alla figura del­la madre e della figlia di Ga­li­leo e a Galileo stesso, che ne era amante. È un richiamo alla realtà umana, alla semplicità incarnata dal personaggio interpretato da Milvia Mari­glia­no, che si muove su un pia­no di conoscenza corporale e rappresenta la vox populi, il contatto tra l’uomo e la na­tura, ma anche lo sconcerto di fronte a un pensiero che li sovrasta».

E che al pubblico arriva chiaro anche grazie alla sua abilità articolatoria: perché molti gio­vani attori sembra si divertano a non farsi capire? Le fi­nali, per esempio… perché non le pronunciano più?
«Mah, io vengo da un teatro che oggi pare antico che è il teatro di parola, dove la parola è sovrana, i miei maestri mi hanno insegnato che la parola va governata, resa come un officiante. Magari anche violentata ma sempre rispettata e riprodotta come gancio del pensiero che deve arrivare al pubblico con forza e chiarezza per generare emozioni e sentimenti».

Come dire, il teatro?

«Il teatro».

Articolo a cura di Alessandra Bernocco