«Se la mafia non uccide non è meno pericolosa anzi, lo è pure di più»

0
3

Il tema lo ha introdotto in occasione dell’incontro andato in scena a Bor­go San Dalmazzo con un titolo significativo: “Co­noscere la mafia per costruire la legalità”, progetto voluto dall’amministrazione comunale della sindaca Ro­berta Robbione che ha previsto anche l’istituzione di un as­sessorato ad hoc. Paolo Bor­rometi, condirettore dell’Agi, è uno di quei giornalisti che hanno pagato un prezzo per la coerenza con cui portano avanti l’idea di un giornalismo etico: ha subito aggressioni, attacchi, minacce e accuse. Lo abbiamo contattato per IDEA.

Mafia e nord: una relazione sempre più stretta?
«La mafia c’è da decenni, al nord. Ogni volta che si “scopre” la sua presenza mi viene da sorridere perché è come se dicessimo alle mafie: venite qui perché non vi sappiamo riconoscere. La verità è che esistono da tantissimi anni. Lo aveva compreso bene Leo­nardo Sciascia già negli anni ‘80 che le mafie non erano un fatto del sud, le mafie hanno fatto cartello al nord e non c’è bisogno delle indagini delle forze dell’ordine per comprenderlo. I risultati li abbiamo visti proprio in Piemonte con l’operazione Minotauro e an­che con certe situazioni emerse in Valle d’Aosta. Ma ripeto, non dobbiamo aspettare che ce lo dicano le indagini. D’ac­cordo, al nord sparano meno e fanno meno morti ammazzati, per fortuna, ma si muovono immettendo soldi a cavallo tra l’economia legale e quella illegale, così dopando il sistema».

Sul nostro giornale abbiamo parlato dell’uccisione di Ame­deo Damiano, caso riportato in evidenza da un podcast di Radio 24.
«Fu un fatto eclatante, ma ancora una volta: perché aprire gli occhi solo dopo ogni am­mazzato? Oggi i segnali non arrivano solo dalla violenza, che peraltro non è più fisica neanche al sud. La violenza nella nuova metodologia ma­fiosa non è immediata e non dobbiamo aspettare il morto per capire certe situazioni».

Possiamo affermare che l’atteggiamento mafioso è insito nella nostra cultura e si esprime in varie forme?
«Condivido in pieno. Ho sempre sostenuto che peggio delle mafie c’è solo l’atteggiamento mafioso. Come diceva Peppino Impastato, certi nostri atteggiamenti non sono altro che il brodo di cottura delle mafie».

Ci sono stati negli anni episodi terribili come le raccapriccianti uccisioni di alcuni bambini.
«Come affermavo prima, an­che in questo caso le violenze che ci sono state e che ci sono ancora, purtroppo sono esempi che non racchiudono il fenomeno mafioso. Si tratta di violenze che non hanno ancora una verità processuale ma esiste quella storica, questo fenomeno non si esaurisce nel vortice della violenza fisica».

Al sud l’imprenditoria soffre di più in un contesto controllato dalla criminalità?
«La differenza è che al sud i mafiosi tentano ancora di controllare il territorio. Al nord lo fanno meno, ma portano lo stesso a termine affari economici. Anzi, spesso i proventi illeciti del traffico di stupefacenti o delle estorsioni vengono reinvestiti proprio al nord».

Le “menti raffinatissime”?
«Il riferimento alla frase del giudice Falcone è decontestualizzato, dobbiamo stare attenti a metterlo in campo. Lui parlava di menti raffinatissime non solo e non tanto a proposito dell’economia, lo diceva per la collusione della mafia con la po­litica, i servizi segreti o la massoneria. Oggi bisogna dire che le nuove generazioni ma­fiose non sono quelle con coppola e lupara, ma si tratta di imprenditori, professionisti e commercialisti, persone che favoriscono quelle attività illecite. Più che menti raffinate, sono menti acculturate».

L’antidoto alla mafia sono i personaggi come Padre Puglisi che lei ha raccontato in un libro per ragazzi?
«Il vero antidoto – se dovessi scegliere – sarebbe quello della conoscenza e del lavoro (quello libero che poi non diventa schiavitù). Come giornalista scelgo la conoscenza, perché è proprio riconoscendo le mafie che capiamo quanto sia importante depotenziarle. La conoscenza è il vero antidoto contro la cultura mafiosa».

All’estero il problema come viene affrontato?
«Va anche peggio, vedi Dui­sburg dove ci fu quella tremenda strage nel 2007: da tempo gli inquirenti italiani avevano segnalato la presenza mafiosa sul territorio tedesco, ma ci è voluto un fatto eclatante di sangue per capire fino in fondo la realtà. Non si deve pensare che i confini geografici possano fermare la delinquenza, faremmo un torto alla lotta stessa contro le mafie. Laddove si fanno affari e c’è un’economia, si inseriscono e tentano di fare soldi. Nella loro ragione sociale non c’è l’idea di uccidere, quella è una conseguenza. C’è invece l’intenzione di fare soldi, l’arricchimento. Dovremmo quindi avere ben chiaro che le mafie da tempo agiscono anche oltre i confini nazionali, basta vedere cosa accade negli Usa. Ci si deve dotare degli strumenti per riconoscerle oppure si finisce per accettarle, che è peggio».

Che cosa suggerirebbe agli imprenditori di una realtà co­me quella piemontese per prevenire i fenomeni mafiosi?
«Ne ho parlato nel mio libro “Traditori. Come fango e depistaggio hanno segnato la storia italiana”. Conosco bene il Piemonte dove vengo spesso e ho tanti amici. Sono anche cittadino onorario di Vinovo e di Candiolo e mia mamma è nata a Torino… La realtà imprenditoriale, in particolare, del Cu­neese è spiccata e non si tratta certo di una cosa negativa, però bisogna avere tutti gli elementi a disposizione per riconoscere la mafia. Penso ai prestiti di denaro, alle imprese che nascono e si trasformano cambiando composizione sociale, hanno capitali che non si sa da dove arrivino. Quelli sono tutti campanelli d’allarme che devono metterci una pulce nell’orecchio, non significa condannare nessuno ma essere vigili affinché si possano creare gli anticorpi necessari».

La nuova mafia ha contagiato anche lo sport?
«Sappiamo bene quanto il calcio sia stato negli anni un business per le mafie. Tutte le squadre più importanti hanno tifoserie organizzate che hanno ricevuto appannaggi, sono state chiaramente infiltrate da componenti vicini alle mafie, dalla A alle serie inferiori».

E intanto la Giustizia fatica a seguire il suo corso.
«Nel mio ultimo libro non risparmio critiche. Il problema però è che noi ci limitiamo ad affidarci ai giudici. Un conto è la verità processuale e un conto quella storica. Io critico la giustizia troppo lenta e le forze dell’ordine che non hanno strumenti e retribuzioni adeguate. Fatte salve queste considerazioni, strumenti come il 41 e il 4 bis sono fondamentali (come le intercettazioni) e non sono da toccare assolutamente».

CHI È

Condirettore dell’Agi, direttore del quotidiano web La Spia, collaboratore di TV2000 e presidente nazionale di Articolo Ventuno. Le sue inchieste hanno portato, tra l’altro, allo scioglimento per infiltrazione mafiosa di diversi comuni. E ha ricevuto minacce sempre più incalzanti ed esplicite

COSA HA FATTO

Alla Biblioteca Anna Frank di Borgo San Dalmazzo ha portato la sua voce di lotta alla mafia
presentando anche il suo ultimo libro “Traditori”. Nell’occasione ha visitato anche Memo4345, il percorso multimediale storico-didattico dedicato alla Shoah in Europa

COSA FA

Porta avanti la promozione del libro “Traditori – Come fango e depistaggio hanno segnato la storia italiana” (Solferino – Corriere della Sera). In precedenza ha pubblicato “Il sogno di Antonio”, “La Carta di Assisi” e “Un morto ogni tanto”. Vive sotto scorta per le minacce ricevute nel corso degli anni. È stato insignito del titolo di Cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana