Se n’è andato all’improvviso, senza alcun segnale di preavviso, ed ha lasciato profondamente costernati coloro che lo conoscevano e lo apprezzavano. Per quel che era stato e per quel che era. In particolare la notizia ha lasciato smarriti quei saviglianesi che con lui e i suoi colleghi docenti avevano partecipato, molti lustri fa, al sogno della ripresa degli studi universitari in città.
Alberto Guaraldo ha condiviso per lungo tempo la vita della nostra comunità, ha apprezzato ed amato la città dedicandole tempo e passione, ha voluto trasformarla nel luogo della sua residenza, nel luogo ove far crescere i figli e ritagliarsi un futuro professionale e culturale. Torinese d’origine, era arrivato in Savigliano sul finire del Novecento, in previsione della riapertura, dopo secoli di oblio, della sede universitaria saviglianese, nell’autunno del 2001, prodigandosi in lezioni tenute un po’ ovunque per mancanza di locali. In precedenza, conseguita la Laurea a Torino, era stato un visionario immaginando di affrontare le avventure del mondo in un’epoca nella quale – erano gli anni Sessanta – i confini stavano stretti a tutti e le passioni per le altre culture, per le dottrine «diverse», soprattutto quelle del passato e legate ai popoli meno occidentali possibili, rappresentavano uno degli argomenti più affascinanti e coinvolgenti.
Subito dopo gli studi universitari si era confrontato con quelli che stavano diventando i suoi interessi culturali, viaggiando a Varsavia, presso l’Accademia Polacca delle Scienze, quindi a Berlino, a specializzarsi in quella università. Aveva poi affrontato il passo più importante della sua vita stabilendosi a Città del Messico e Veracruz, in Messico, impegnato prima nello studio delle antiche civiltà Maya e poi come docente universitario in materie affini. È in Messico che aveva conosciuto quella che sarebbe diventata la compagna della sua vita, Maria Rosaria «Charo» Rodriguez.
Il ritorno in Italia e nella sua Torino aveva rappresentato la conseguenza del percorso esistenziale avviato coi suoi soggiorni esteri. Per un po’ di tempo, in attesa che l’università lo chiamasse all’insegnamento, aveva svolto l’incarico di addetto stampa della provincia di Torino. In seguito era stato nominato alla cattedra di Antropologia Culturale e di Etnologia delle Americhe – la sua specializzazione – presso il più importante ateneo piemontese. Era diventato un punto di riferimento per gli studi subalpini ed italiani che si occupavano di Mesoamerica, contribuendo alla pubblicazione di libri e saggi specialistici, con l’obiettivo di valorizzare materiali del passato rimasti sconosciuti. Numerosissimi i campi della sua ricerca, che lo avevano portato a compiere tanti viaggi in Messico, negli Stati Uniti e, per conto delle Missioni della Consolata con le quali collaborava, a percorrere un lungo tratto del Rio delle Amazzoni per un importante viaggio di studio e di ricerca.
Poi la scelta di trasferirsi a Savigliano, con la moglie e i figli, Emiliano e Stefano, e di andare ad abitare in un alloggio i cui balconi prospettassero verso la campagna, verso la natura. Aveva trovato casa in via San Giacomo, in fondo, dove l’edilizia umana lasciava spazio al verde. In previsione della definitiva sistemazione delle Facoltà universitarie saviglianesi nell’ex convento di Santa Monica, finalmente restaurato, nell’anno accademico 2007-2008 era stato nominato presidente del Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione (che all’epoca era forse l’unico in Italia ad essere ad indirizzo ecologico). Poco tempo dopo, il 4 luglio 2008, insieme ad Alberto Baldissera, rettore, Serenella Jovino, Mirta Bonjean, Maurizio Valsania ed Alberto Parola, aveva fatto parte della commissione d’esame della prima tornata di Tesi di Laurea saviglianesi (otto in tutto).
Sono stati centinaia e centinaia gli allievi che l’hanno accompagnato, presso l’università di via Garibaldi, alla data della sua giubilazione. Di carattere mite, aperto a tutti i pensieri, molto curioso e sempre confidenziale, mai sopra le righe e sempre propenso a moderare i toni, anche nelle discussioni più accese, aveva vissuto molto intensamente le trasformazioni cittadine, ponendosi sempre come valido e spontaneo interlocutore nei dibattimenti che la vita politica e sociale locale imponevano per necessità. Aveva anche iniziato la raccolta di testimonianze saviglianesi relative al secondo conflitto bellico.
Raggiunta la tranquillità della pensione aveva iniziato a pensare a se stesso. Voleva dedicarsi ulteriormente alla cultura ed allo sviluppo del sociale, studiare, scrivere, leggere e coinvolgere gli amici nelle attività che intendeva sviluppare e approfondire. Cercò a lungo, nella campagna saviglianese, un piccolo edificio rurale in disuso da poter adattare a suo «buen retiro», ove raccogliere i suoi libri, destinare le sue carte, vivere anche un po’ in solitudine e di tanto in tanto radunare il cenacolo degli amici per incontri e discussioni sulle cose del mondo. Non riuscì a soddisfare questo suo desiderio (anche i chiabotti più minuscoli per lui erano già troppo grandi) e, a malincuore, tornò a Torino.
Periodicamente, con discreta frequenza, ricompariva a Savigliano con la moglie «Charro». Mezza giornata, una giornata, per ricordare la stagione vissuta in città e col desiderio, forse, di potervi prima o poi far ritorno. Sui social, per un numero ristretto di contatti, ha raccontato – ed anche recentemente – alcuni passi della storia sua e della sua famiglia, in riferimento ai luoghi materni e paterni che ne hanno caratterizzato le origini: la Valle d’Aosta ed il Monferrato.
Un malore improvviso se l’è portato via la notte scorsa a Torino.
Forse la Facoltà saviglianese che lo ha visto attivo interprete della rinascita farebbe cosa lodevole nel dedicargli un’aula ospitata nell’ex convento di Santa Monica.
luigi botta