Ci sono quattro storie che si legano e si disgregano, come i ghiacciai che si sciolgono, le certezze che vacillano. A volte le stagioni rimangono in bilico fra sfide estreme e cadute rovinose. “Alta quota” è una co-produzione italo-francese, in corso di realizzazione durante il 2024 in diverse zone dell’arco alpino, ma è soprattutto un affresco di vite ai tempi del cambiamento climatico. A seguire le loro evoluzioni tre registi: Stefano Scarafia, Fabio Mancari e Giacomo Piumatti, affamati di dettagli e vogliosi di suscitare domande. Il primo è nato a Cuneo, vive a Bra ed è affascinato da chi «non si arrende».
Scarafia, di cosa parla “Alta quota”?
«Seguiamo e raccontiamo le storie di quattro rifugi in Italia, Francia e Svizzera e di chi li gestisce, attraverso la quotidianità di due donne, due uomini e una bambina. Il tema è quello della montagna, sopra i 3.000 metri. I protagonisti sono in una zona di mezzo tra natura estrema, desiderio di libertà e conquista. Il fil rouge è il cambiamento climatico, che a quelle altezze, ha un impatto immediato e costante nelle loro vite, e noi lo raccontiamo anche visivamente».
Il vostro non è, però, un intento giornalistico o di inchiesta.
«Vogliamo raccontare, non proporre delle soluzioni. L’idea è far nascere delle domande, e creare emozioni ed empatia nello spettatore. Il cambiamento climatico non è qualcosa di astratto, o che riguarda solo altri. Nel nostro documentario raccontiamo, per esempio, la storia di Daniela, in Svizzera: il suo rifugio deve essere abbattuto e ricostruito a causa dello scioglimento del permafrost su cui sorge. Non è solo la storia di un trasloco, ma di una trasformazione. E poi c’è Venturino che mantiene una capanna a rischio chiusura, nella zona più impegnativa delle Dolomiti, e la cui attività e stagionalità dipende dall’avere accesso all’acqua grazie a un ghiacciaio che si sta sciogliendo».
La difficoltà nell’accedere alle risorse è un altro tema portante.
«I beni e i servizi assumono lassù un altro peso, a cominciare dall’acqua. La sua captazione richiede la presenza di un nevaio, spesso a chilometri dal rifugio, da collegare con tubi saldati l’uno con l’altro. L’approvvigionamento di cibo è un enorme sforzo economico, senza dimenticare tutte le attività quotidiane: lo smaltimento dei rifiuti e delle acque reflue, la manutenzione continua delle strutture».
Qui le persone non vengono idealizzate, non ci sono eroi.
«L’alta montagna è stata raccontata, tanto nel cinema quanto nella letteratura, attraverso grandi imprese, avventure mitiche o sfide estreme. Nel nostro film, di eroi, non ce ne sono. I nostri protagonisti sono persone normali che gestiscono situazioni straordinarie, tentando ostinatamente di mandare avanti le loro vite e le loro attività, confrontandosi con i propri limiti in un luogo pieno di conflitti estetici e narrativi, che gli si sta letteralmente sfaldando intorno. Gente che lotta, che resiste, che è capace di alzarsi e ricominciare».
Quali sono le tempistiche del film?
«Contiamo di concluderlo nei primi mesi 2025: quest’anno sarà dedicato alle riprese, che inizieranno ufficialmente a marzo, in Francia. Man mano ci occuperemo di vedere il girato e di montarlo. Il progetto è iniziato più di un anno e mezzo fa, con la scrittura del soggetto, la ricerca dei fondi, i sopralluoghi. Si tratta di un lavoro, i cui tempi dipendono tantissimo dalle condizioni climatiche che dovremo affrontare, dobbiamo ragionare giorno per giorno. E poi, vogliamo anche documentare la ricostruzione del rifugio di Daniela».
Chi vi ha aiutato a sviluppare il progetto?
«Abbiamo ricevuto il contributo allo sviluppo da parte della Film Commission Torino Piemonte e il sostegno alla produzione da parte della Film Commission Valle d’Aosta. Il nostro film è prodotto da Stuffilm, Pulp Films e L’Eubage».
Il vostro è un lavoro a sei mani, siete tre registi che avete una notevole esperienza e avete partecipato a numerosi festival internazionali, com’è lavorare insieme?
«Siamo un gruppo affiatato che si conosce, che condivide lo stesso modo di lavorare e le idee importanti. In questa fase della lavorazione passiamo tantissimo tempo insieme e siamo concentrati: ci sono tantissime cose da fare, non solo legate alle riprese, ma anche alla produzione e all’organizzazione». Qui interviene nella discussione anche il regista Giacomo Piumatti, molto divertito: «Io ho una totale fiducia dei miei compagni di avventura, mi butterei nel fuoco per loro e sono sicuro che anche loro lo farebbero. Abbiamo anche la fortuna di avere uno sguardo diverso, che è quello della nostra produttrice francese. Non mancano i momenti di scontro, le liti e i conflitti ma, secondo me, è in questi momenti che nascono le idee migliori».
Non è la prima volta, Scarafia, che lei racconta la storia di persone che lottano: nel 2022 ha realizzato Food Heroes, prodotto da Slow Food e finanziato dal Ministero degli Affari Esteri.
«È stato distribuito in tutte le ambasciate italiane nel mondo all’interno di una videoinstallazione dedicata. Parlo di donne e uomini che si impegnano per la tutela della biodiversità alimentare e la difesa dei diritti dei piccoli produttori. Sono rimasto molto colpito, per esempio, dai miticoltori di Taranto. Non c’è solo l’Ilva con una narrazione negativa del territorio, ma anche eccellenze straordinarie, che raccontano di uomini che sembrano vinti e che, invece, diventano esempio di caparbietà e resilienza. Ora che ci penso è anche il tema del mio primo lungometraggio di finzione “Oltre il tempo”, a cui sto lavorando».
Di cosa parla?
«Racconto la storia di Marco Olmo, diventato a 58 anni campione del Mondo di Ultratrail vincendo quello du Mont Blanc, la gara di resistenza più importante e dura al mondo, dopo una vita di fatica e di lavoro nelle cave a Robilante, in provincia di Cuneo».
Articolo a cura di Riccardo Rodri