Quando si sceglie di giocarsela dietro le quinte. Anche se le carte per calcare il palcoscenico o per conquistarsi i primi piani delle serie tv, o anche del cinema, ci sarebbero tutte. Ferdinando Ceriani è figlio d’arte, di più, è figlio d’arte al cubo. Sua madre è Martine Brochard, stimata attrice di cinema e teatro in Francia e in Italia, celebre al grande pubblico per il ruolo del titolo ne “La governante”, il film tratto dalla commedia omonima di Vitaliano Brancati, che negli anni Settanta fece il suo bel scalpore; suo padre è Umberto Ceriani, attore strehleriano tuttora attivo al Piccolo Teatro; il padre con cui invece è cresciuto è stato Franco Molé, regista e drammaturgo e marito della mamma, scomparso nel 2006. Una figura di riferimento importante della cosiddetta scuola romana, quel teatro che la ricerca la faceva sul serio e che vedeva tra i suoi rappresentanti anche Carmelo Bene, Leo De Berardinis, oltre all’inossidabile Giancarlo Sepe, in carica più che mai. Accanto a Franco, in uno spazio genuinamente “off” fondato nel cuore di Trastevere, Ferdinando ha maturato i suoi primi interessi per la regia, apprendendo i fondamenti di un mestiere che è innanzitutto artigianato. E che lo avrebbe portato nel giro di pochi anni a lavorare fianco a fianco di Maurizio Scaparro, un Maestro di teatro di respiro internazionale, regista, manager e propulsore culturale.
Ferdinando, partiamo da Scaparro. Come vi siete incontrati?
«Ho sostituito il suo aiuto a Parigi, nel 2000, quando per il Théâtre des Italiens, portò “Pulcinella” con Massimo Ranieri. Aveva bisogno di un assistente che parlasse il francese».
E poi la sostituzione è diventata stabile e la collaborazione continuativa.
«Mi ha subito dato grande spazio, si fidava. Aveva intuizioni geniali che abbracciavano grandi progetti e la capacità di fare rete, di tessere rapporti proficui con le istituzioni e con gli attori, capiva che il progetto sarebbe cresciuto grazie a una rete di relazioni».
E per lei è stato l’ingresso nel teatro ufficiale.
«Ho conosciuto artisti di altissimo livello dai quali non si poteva che imparare: Giorgio Albertazzi, Irene Papas, Peppe Barra, Emanuele Luzzati, Nicola Piovani… ».
Vado avanti io, Ornella Vanoni, Milva, Giulia Lazzarini, Valentina Cortese. Ci racconti dello spettacolo per i sessant’anni del Piccolo Teatro di Milano.
«Anche qui c’è la mano di Scaparro, allora direttore della Biennale di Venezia. La proposta di curare la regia della serata per i Sessant’anni del Piccolo mi arrivò da Rosanna Purchia, che dirigeva la programmazione del Piccolo, che vide “Il sogno di G”, (G come Giorgio Strehler, nda), la serata della Biennale di Venezia dedicata ai Leoni d’Oro alla carriera dei teatranti quando si premiò Ferruccio Soleri. Era la messa in scena degli scritti di Strehler attorno ai “Memoire” di Goldoni, con Andrea Jonasson e Giulia Lazzarini».
Due signore della scena che quindi già conosceva. Come andò con le altre?
«Ornella Vanoni, simpaticissima».
E la mitica Valentina?
«Mi ricevette nella sua stanza, lei nel letto a baldacchino, io su un pouf, mi chiamò Umberto come mio padre e mi disse che proprio non se la sarebbe sentita. Era uguale a come la si vedeva in teatro, il foulard di seta e lo stesso tono di voce».
Sì ma come finì?
«Finì che pochi minuti prima di cominciare – lei non si era fatta ancora vedere – sentimmo un rumore improvviso sul palcoscenico. Era Valentina Cortese. Voleva essere la prima, fuori scaletta e fuori copione. Così dopo di lei cominciò lo spettacolo».
E le colleghe come la presero?
«Milva non la prese benissimo».
Immagino. Ora mettiamo le star in stand by e veniamo a lei e al suo teatro. Il suo Caravaggio, uno spettacolo che da due stagioni sta registrando un gran successo, risente molto della scuola di Franco Molé. Quali sono stati i suoi insegnamenti?
«Io ero affascinato da come dirigeva gli attori, scavando in ogni parola, con una chiarezza assoluta della mente. E dall’uso che faceva delle luci. Franco era un maestro nell’uso delle luci. Diceva che con il giusto cambio luci puoi restituire l’atmosfera, i contorni, le allusioni che permettono allo spettatore di creare il proprio spettacolo».
E questo Caravaggio ne è l’esempio perfetto. Ce ne parli.
«“Caravaggio il maledetto” è un testo liberamente ispirato a “Caravaggio Probabilmente” di Franco Molè, che ripropose nel ’90 e che io ebbi la fortuna di vedere. Anche il nostro è uno spettacolo onirico dove le luci sono importantissime».
E com’è in scena questo delirante artista interpretato da Primo Reggiani?
«Delirante lo è perché viene soccorso da due pescatori sul litorale romano mentre è in preda a febbri malariche. I pescatori diventano i diversi personaggi che ha incontrato e le visioni i suoi dipinti proiettati sul fondale, ma in movimento, animati».
Molto interessante. Come l’incontro con Galileo di cui non si sapeva.
«Non è certo, infatti. Ma entrambi erano protetti dal cardinal Del Monte, frequentarono Palazzo Madama nello stesso periodo e mi piace pensare che si fossero incontrati».
E, licenza nella licenza, tra i due cosa succede?
«Le dico solo che nel testo il Cardinal Del Monte presenta Galileo a Caravaggio dicendo “Ti voglio presentare questo mio protetto: guarda il cielo con gli stessi occhi con cui tu dipingi”».
Vero. Invece come l’è venuta l’idea di mettere in scena “Il curioso caso di Benjamin Button”, la novella di Francis Scott Fitzgerald da cui è stato tratto il film con Brad Pitt, dove il protagonista nasce vecchio e sparisce neonato? Una bella sfida in teatro, senza trucco ed effetti speciali!
«Infatti lo spettacolo non nasce dal film ma dalla novella di cui Pino Tierno ha curato l’adattamento trasportando la vicenda in Italia, in una città non precisata ma che potrebbe essere Roma. Anche il protagonista interpretato da Giorgio Lupano non si chiama Benjamin ma Nino Cotone».
Ma come avete risolto lo scorrere a ritroso del tempo con un attore solo in scena?
«In scena c’è anche una figura femminile che rappresenta tutte le donne incontrate, ma Giorgio è stato bravissimo anche nel rendere le voci degli altri personaggi. Ci siamo inventati anche qui una messa in scena onirica che ruota intorno a una valigia magica da cui Giorgio-Nino estrae i costumi e gli oggetti che identificano le diverse età. Il passaggio temporale è anche reso attraverso effetti sonori e musiche d’epoca. Si va dai valzer alle marce militari di fine Ottocento alle canzoni popolari, dal Trio Lescano fino a Mina, che arriva quando lui sparisce».
Valigia magica?
«Un vero e proprio personaggio. Apparteneva a Gianrico Tedeschi e ha per noi un carico di energia positiva».
A cura di Alessandra Bernocco