C’è un video di Teche Rai, datato 1999, che oggi appare evocativo e struggente. Sul palco del teatro Toselli di Cuneo – riuniti per il festival europeo degli scrittori, ora Scrittorincittà – sono riuniti autori legatissimi alla Granda: Gina Lagorio, Nuto Revelli, Giorgio Bocca. Con loro, un giovane Ezio Mauro. Un pezzo di storia che proprio all’ex direttore di Repubblica e La Stampa, dronerese, abbiamo chiesto di commentare, assieme all’approfondimento dell’attualità politica.
Direttore, ci sono valori legati al territorio che si ritrovano in questi scrittori. Perché?
«Se prendiamo Bocca e Revelli, sicuramente i caratteri comuni sono una certa ruvidezza personale, la ritrosia a mostrarsi e la convinzione che contino più le idee che l’apparire. E naturalmente sono persone segnate dall’esperienza ineguagliabile della guerra e della lotta partigiana. Questo carattere che segnerà tutta la vita di Bocca è addirittura inciso nella sua fisionomia, per lui è una lente con cui osservare l’Italia e trarne giudizi. È l’antifascismo che ha conosciuto sulle montagne della Valmaira e delle altre valli cuneesi».
Cosa significa raccontare – come sta facendo – i prodromi e la fine del periodo fascista?
«Vuol dire non tanto uscire dalla celebrazione retorica, ma portare i cittadini dentro la vicenda, guardandola nel suo divenire per arrivare a una vera conoscenza di cosa sia stato il fascismo. Significa uscire dai luoghi comuni che hanno contribuito alla banalizzazione degli ultimi trent’anni che è una delle cause di ciò che stiamo vivendo, il fascismo ridotto a vizio nazionale, allo stesso tempo dittatura addomesticata, all’italiana, una variante morbida di dittature peggiori».
E invece?
«Invece studiando il fascismo da vicino e mostrandolo nei suoi passaggi, risulta evidente come la violenza sia il tratto distintivo, prima e dopo la presa del potere. Una violenza di stato. Mi sono ben guardato dal fare analogie con l’oggi: sarebbe qualunquismo, una scorciatoia. Non c’è in giro un Mussolini come, purtroppo, non ci sono Turati, Nenni, Sturzo o Gramsci. Esiste qualche Facta, semmai. Ma basta per essere preoccupati».
Qual è l’aspetto peggiore?
«È preoccupante che la presidente Meloni non senta il bisogno di dare un giudizio sul fascismo e chiudere quella stagione. In occasione del centenario della marcia su Roma, non ha detto nulla. Speriamo che parli per l’anniversario di Matteotti (fu ucciso il 10 giugno 1924, ndr), mentre ha espresso considerazioni nette su vicende come la deportazione degli ebrei dal ghetto – e ci mancherebbe altro, viene da dire – ma soffermarsi su singoli episodi è come instillare l’idea che si tratti di deviazioni dalla retta via mentre manca un giudizio sulla natura del fascismo. Solo così si potrebbe capire che sono tutti atti figli di quel carattere, ma non è avvenuto nulla di tutto questo».
Dopo i fatti di Acca Larenzia, si è evidenziato il riferimento di una certa destra ai fatti violenti degli anni ’70 e non al periodo fascista.
«C’è un culto dei morti tipico della tradizione fascista ma si suggerisce la falsa rappresentazione di un paese in stato di guerriglia. Ci sono state le bombe e le stragi di stato, il terrorismo di destra e di sinistra che ha insanguinato il Paese, però qui parliamo del legame con le radici storiche del fascismo e di ciò che ne è derivato, il Movimento sociale e il neofascismo o postfascismo, luogo politico dove ha radici la generazione di Meloni».
Il rapporto tra Resistenza e Costituzione crea ancora frizioni?
«Penso che il vero obiettivo della Meloni non sia certamente la ricostituzione del fascismo, ma una frattura costituzionale in modo da segnare un prima e un dopo nella nostra storia repubblicana. Cioè interrompere con la riforma del premierato la vicenda costituzionale nata dall’antifascismo con tanto di ribellione nazionale alla dittatura. Qualcosa che ha reso la democrazia non concessa dagli alleati che stavano risalendo da sud, ma in parte riconquistata dai partigiani. In questa ribellione c’è la fonte di legittimità della Repubblica. Si vuole interrompere proprio questo con la neutralizzazione del carattere della Repubblica, non più basato sulla ribellione alla dittatura fascista che abbiamo vissuto e dove tutti gli affluenti culturali e politici hanno pari titolo. Mi stupisce che gli intellettuali liberali non abbiano nulla da dire, come se l’antifascismo non fosse un valore ma una sovrastruttura del comunismo, un residuato bellico».
Crisi e autoritarismi: un collegamento oggi d’attualità?
«Capita nel mondo occidentale perché è assalito da varie crisi congiunte o concorrenti: quella economico-finanziaria (la più lunga di sempre), il Covid, due guerre, la crisi della rappresentanza politica e la disaffezione dai partiti tradizionali. Tutto lascia un prezzo su una cittadinanza scoperta, non tutelata e non rappresentata, che cerca risposte più con risentimento che con intendimenti positivi. Come dire: tu democrazia segui ottimi principi ma tuteli solo i garantiti, noi siamo tagliati fuori. Quelli che Trump chiama i “forgotten men”, anime del cortocircuito populista. Certo, la democrazia non sta molto bene, ma dovremmo distinguere tra responsabilità politica e democrazia. Certi leader dicono che la democrazia è un semplice prodotto del Novecento e non è universale, che va bene per fasi di benessere ma non nelle crisi. Propongono quindi un modello più semplificato, verticale, in cui il popolo cede sovranità al leader stesso, quella sovranità che nella Costituzione risiede nel popolo. Concetti insidiosi in un momento così, tuttavia le dittature si sono sempre basate sulla negazione della democrazia. Nel marzo ’22 Mussolini disse “è finito il secolo democratico del numero, della quantità e della maggioranza, lo stato di tutti torna stato di pochi ed eletti”. Ecco la concezione del fascismo».
Oggi i leader tornano a combattere guerre dolorose, da Putin a Netanyahu.
«Sono casi diversi, ma due vicende che stressano la democrazia. Fanno capire la fragilità della rete di istituzioni sovranazionali di garanzia che i nostri padri avevano steso sul mondo per proteggere noi da tutto questo. Una rete vanificata in poche mosse dall’invasione in Ucraina e dall’assalto di Hamas che ha riproposto i pogrom che non credevamo di rivedere nella nostra vita. Israele ha il diritto e il dovere di rispondere con forza per difendere il patto con i cittadini, però le democrazie hanno un dovere in più: la coscienza del limite, l’obbligo di rimanere se stesse. Questo è il problema che Netanyahu pone alla coscienza del suo Paese e a tutti noi».
CHI È
Gornalista e saggista, esperto di analisi storica e politica. È nato il 24 ottobre 1948 a Dronero ed è stato direttore del quotidiano La Stampa dal 1992 al 1996 prima di assumere lo stesso incarico a La Repubblica nel periodo tra il 1996 e il 2016, sostituito da Mario Calabresi
COSA HA FATTO
Ha iniziato la sua carriera giornalistica collaborando con la Gazzetta del Popolo, a Torino e occupandosi del terrorismo negli anni di piombo. In quel periodo sarrà pedinato dal brigatista Patrizio Peci. È stato anche corrispondente da Mosca per La Repubblica prima di diventare direttore
COSA FA
In tv, su La7, ha raccontato recentemente la fine del fascismo nel documentario “La caduta”. In precedenza si era occupato anche della marcia su Roma. Su Rai3 invece, aveva firmato “La scelta”, approfondimento su alcune decisioni epocali