Rincorrerla, l’abbiamo rincorsa, ma ne è valsa la pena e alle dieci di domenica sera, Michela Cescon, dalla sua casa romana, mi dice che è appena rientrata da Ferrara dove sta girando un film top secret di cui rivela soltanto che è diretto da Elisabetta Sgarbi. Intanto sta scrivendo lei stessa la sceneggiatura del suo secondo film da regista, dopo “Occhi blu” del 2021, protagonista Valeria Golino; è alle prese con tre figli adolescenti e ha un marito che va e viene tra Roma e Milano dove lavora. Tutto questo, mentre lo spettacolo da lei prodotto sta registrando il sold out nei teatri italiani, facendo molto discutere. “Svelarsi” il titolo, un esperimento ideato e diretto da Silvia Gallerano rivolto a un pubblico esclusivamente femminile che mette in scena otto donne con i loro corpi nudi, spogliati di abiti, giudizi e pregiudizi. La risposta perlopiù pacifica (e comunque non bellicosa) alla cultura patriarcale dominante che insegna alle donne, sin da piccole, ad accettare invasioni di campo, ovvero di corpo, da parte dell’altro sesso.
Cosa è “Svelarsi” per Michela, in particolare?
«Un progetto importante non soltanto per quanto riguarda il discorso sulle donne e sul corpo femminile ma perché segna un collaudo professionale a cui tengo molto e del quale mi prendo responsabilità e applausi».
Avete incontrato molte resistenze?
«Sì anche perché il panorama teatrale italiano è in mano agli uomini: le donne sono sempre marginali e salvo pochissime eccezioni si devono inventare mille escamotage per difendersi. Non parliamo poi di produzione. Ho dovuto lottare per anni e mi hanno preso per matta. Ma io lavoro a formichina e mi piace la lunga gestazione di un progetto».
Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Cos’è che l’ha conquistata inizialmente?
«Mi commossi dopo avere assistito a soli venti minuti di prove. Di fronte a una risposta intelligente, non rabbiosa, alla questione femminile legata al corpo, provai una sorta di liberazione. Recentemente ho portato mia figlia diciassettenne che mi ha ringraziato e impegnerò tutta me stessa perché sia possibile farlo vedere a quante più ragazze possibile».
Nelle note si legge: spettacolo rivolto a sole donne o a chi si sente tale.
«Ecco, qui non sono d’accordo. Anzi, rispetto alla possibilità di estendere la performance a un pubblico maschile si è creata una controversia. Io credo che in questo caso sia fondamentale la familiarità e l’appartenenza a quei corpi fisici, quindi con seni e vagina. Noi stimiamo quelle donne perché fanno quello che avremmo dovuto fare noi. Nell’esperienza del corpo la nudità è fondamentale. Il loro è un dono».
Quindi la variabile dell’identità in questo caso è secondaria?
«Noi siamo il nostro corpo, nel bene e nel male. Soprattutto noi attori. Il corpo è la prigione di un attore. Ci sono grandissimi talenti che a causa del corpo non possono interpretare determinati ruoli».
Allora parliamo del corpo di Michela attrice. Non si può non ricordare “Primo amore”, il film diretto da Matteo Garrone in cui lei dovette perdere venti chili in sei settimane.
«Un film girato in sequenza in cui Garrone ha seguito la trasformazione di un corpo che andava a dimagrire».
Il film si reggeva su un rapporto perverso tra vittima e carnefice che prevedeva la compiacenza da parte della donna.
«Lei ha accettato il gioco di un corpo che si doveva trasformare, che doveva diventare trasparente come i gioielli che lui, che era un orafo, lavorava».
Dopo quel film è cambiato il suo rapporto con il corpo e con il cibo?
«Sono più morbida e tre o quattro chili in più li porto volentieri. Le diete perenni mi infastidiscono e le donne sempre affamate non le capisco».
Nella vita le è mai capitata un’esperienza ai limiti dell’autodistruzione?
«No, sono una che quando avverte un senso di pericolo se ne va. Anche nel lavoro».
Per questo è scappata da Luca Ronconi, il suo maestro, con cui debuttò nel 1995 in “Ruy Blas” di Victor Hugo?
«Era un ruolo importantissimo ma fu molto duro, quasi violento perché Ronconi voleva trasformarmi in quello che voleva lui. Io gli dissi che il teatro non doveva farmi stare così male e sono scappata».
E con Massimo Popolizio che interpretava Ruy Blas, come andò?
«Bene anche se dentro una struttura di quel tipo le relazioni non esistevano. Era tutto in mano a Luca».
Non le è rimasto proprio nulla del suo insegnamento?
«Tutto: la lettura del testo, il senso dello spazio, la grandezza dei progetti, lo studio. È stato un padre, ma l’ho lasciato».
Poi sono seguiti tanti incontri importanti: in teatro il sodalizio con Valter Malosti e nel cinema con Marco Tullio Giordana.
«Con Valter abbiamo vinto premi con spettacoli autoprodotti, sempre lavorando in modo indipendente. Una palestra, perché io continuo a muovermi fuori dalle grandi istituzioni. Marco Tullio mi ha fatto un regalo bellissimo con il ruolo di Lucia in “Quando sei nato non puoi più nasconderti” (film del 2005 che ruota intorno al problema dell’immigrazione clandestina, nda) e con quello di Licia (la moglie dell’anarchico Giuseppe Pinelli in “Romanzo di una strage”). Mi diceva che avevo uno sguardo d’insieme e devo a lui il mio soprannome, Ceschi, con cui mi presento tuttora».
È grazie allo sguardo d’insieme che si è poi dedicata alla produzione?
«La produzione è arrivata piano piano, io non mi sento protagonista. Odio essere riconosciuta per strada e se il progetto ha quagliato, cedo volentieri il mio ruolo».
Infatti non era presente in “The coast of utopia”, lo spettacolo dal testo di Tom Stoppard diretto proprio da Marco Tullio Giordana, che lei ha coprodotto con lo Stabile di Torino.
«Un progetto nato come indipendente, poi sostenuto dallo Stabile di Torino».
Mi sta ripetendo che le donne devono sempre faticare di più anche a farsi strada nelle istituzioni?
«Soprattutto nelle istituzioni. Basta vedere cosa è appena successo al Teatro di Roma: su quarantadue candidature nemmeno una donna in terna per la direzione. Eppure noi veniamo da una tradizione in cui le compagnie si strutturavano intorno a figure femminili potentissime, Eleonora Duse, Sarah Bernhard ma anche più vicino a noi, Anna Proclemer, Valeria Moriconi, Mariangela Melato».
Altri tempi. Come quelli in cui la Camera dei Deputati era presieduta da Nilde Iotti che lei interpretò con il monologo di Sergio Claudio Perroni diretta da Roberto Andò. Che ricordo ha di “Leonilde. Storia eccezionale di una donna normale”?
«Nilde Iotti è stata un’icona di eleganza e austerità e io ero spaventata all’idea di farne una macchietta. Mi conquistò l’idea di creare una stanza della memoria in cui si muoveva lo spirito di Nilde, con il suo vestitino dimesso da partigiana, prima dell’ingresso ufficiale in politica».
Altra politica…
«Eh sì, quando si faceva attenzione alle parole, c’era un’eleganza anche nei modi e non si faceva a gara a chi la spara più grossa».
Articolo a cura di Alessandra Bernocco