«L’idea di carcere deve essere unita all’idea di futuro»

Il garante regionale delle persone detenute Bruno Mellano racconta a IDEA la sua sfida per i diritti: «Il 70% di chi esce torna a delinquere, ma tutto cambia per i detenuti che trovano un lavoro»

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09_11_2023 Convegno: il carcere minorile contemporaneo. Interviene Bruno Mellano, Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Regione Piemonte

Durante la sua prigionia a Fossano (1937-38) per il reato di cospirazione politica, il pittore Aligi Sassu ottenne il permesso spe­ciale di continuare a dipingere. Alcuni quadri, patrimonio della Regione, sono ospitati a Palazzo Sormani di To­rino, dove ha i suoi uffici il garante regionale delle persone detenute Bruno Mellano, quasi un segno di buon auspicio.

Partiamo dal fondo, i detenuti hanno delle possibilità?
«Secondo il Ministero di Giustizia su oltre 60mila de­tenuti solo meno di 20mila lavorano in Italia, ma un conto è pulire il corridoio, un altro fare il pane alle 5 del mattino o cucire divise su mo­delli di alta sartoria, essendo pagati, secondo le regole italiane, due terzi dello stipendio. Quelli che lavorano con cooperative o ditte esterne e in maniera strutturata sono poco più che 2mila».

Pochi sanno dell’esistenza della legge Smuraglia e delle agevolazioni per chi assume detenuti o ex detenuti.
«Il sistema penitenziario italiano fa acqua, ma il quadro normativo generale è buono e alcune norme danno corpo all’articolo 27 della Costitu­zione secondo cui “le pene de­vono tendere alla rieducazione del condannato”. La legge Smuraglia è uno strumento per creare un ponte tra il carcere e il tessuto socio-economico. Chi assume detenuti o ex detenuti ha diritto a sgravi fiscali importanti, oc­corre saperlo».

Il lavoro e il reinserimento so­no elementi centrali.

«Se un detenuto è occupato, è più difficile che crei problemi ed è più probabile che stia bene emotivamente. Ad Ales­sandria, Torino e Saluzzo, per esempio, sono attivi poli universitari; quindi, magari il detenuto ci arriva con la li­cenza elementare ed esce laureato. La questione ambientale è fondamentale: non è un caso che la polizia penitenziaria sia una delle categorie con il più alto tasso di suicidi».

Quali sono i problemi che arrivano alla sua attenzione?

«Il tema del lavoro è al primo posto, lo dicono anche i dati che il problema cronico è la recidiva. Il 70% delle persone che escono dal carcere tornano a delinquere. Nei casi di detenuti che sono stati inseriti in un percorso e monitorati, la recidiva si abbassa o si annulla addirittura».

Altre tematiche?

«Le persone detenute vivono spesso la propria condizione come una perdita di tempo e devono essere stimolate, non vogliono sentirsi un peso. Un’altra criticità sono i trasferimenti da un carcere all’altro e le questioni sanitarie».

Le criticità maggiori delle carceri piemontesi?

«C’è un problema generale di sovraffollamento. Molte delle carceri sono nate negli anni ’80, nell’epoca del terrorismo, con l’idea di separare, dividere, controllare. In molti casi quindi non ci sono aule, locali di socialità, laboratori e spazi neanche per costruire un ca­pannone per lavorazioni».

Ci saranno delle eccezioni.

«Cuneo è riuscita a riattivare il panificio e le serre, Fossano ha sfruttato i propri spazi di antico convento in centro cit­tà. Nel carcere di Biella c’è una delle più grandi sartorie industriali del territorio e si occupa delle divise per gli agenti della polizia penitenziaria».

Cosa dicono i dati piemontesi sulla presenza di detenuti?

«Al 31 dicembre 2023, a fronte di 3.982 posti regolamentari, avevamo una presenza reale di 4.231 detenuti, ma siamo già saliti con l’anno nuovo. Ci scontriamo con la questione dei posti presenti sulla carta, ma temporaneamente non disponibili: a fine 2023 erano in Piemonte 210».

Come è possibile?
«Magari la struttura è in attesa di un restauro, dell’apertura di una sezione. Si pensi, per esempio, al caso di Alba, per cui dal gennaio 2016 aspettiamo la fine del cantiere o a Cuneo, in cui devono essere riaperte due sezioni su quattro del 41 bis. C’è comunque un problema alla fonte dell’intero sistema giudiziario».

Ovvero?
«Oltre un terzo di chi è in carcere è in attesa di giudizio: di questi sappiamo che almeno metà non saranno condannati. Quindi le strutture si trovano a gestire persone potenzialmente innocenti. Aggiun­go un dato: ogni anno circa 1.000 persone fanno ricorso contro lo Stato per ingiusta detenzione e spesso vengono risarciti. Inoltre, un terzo dei detenuti ha reati connessi al mondo della droga, spesso commessi a fini di consumo: si tratta di persone che do­vrebbero stare in comunità, non in carcere».

Ogni struttura, però, vive il suo contesto.

«In Piemonte ci sono 13 carceri per adulti, più il carcere minorile Ferrante Aporti che ha una gestione separata. A Cuneo e Novara ci sono due strutture che gestiscono il 41 bis. Qui il problema principale è la sicurezza. C’è un ambiente chiuso, non c’è nessun trattamento, e questo cli­ma un po’ per osmosi tende an­che a influenzare gli altri detenuti. Asti e Saluzzo sono case di reclusione ad alta sicurezza in cui i detenuti sono quasi tutti cittadini italiani, affiliati, o i cui reati sono connessi alle organizzazioni criminali. Sono persone che han­­no pene medio-lunghe, i problemi sono diversi dal punto di vista della sanità, della formazione, dello studio, dei bisogni».

E per quanto riguarda la presenza di detenuti stranieri?

«La media italiana è del 34%, in Piemonte del 38%, ma in alcuni istituti superiamo il 60% e si creano delle vere e proprie bolge infernali, per chi ci vive e per chi ci lavora».

E come si spiega?
«Il mondo penitenziario è so­stanzialmente diviso in due: la casa di reclusione e la casa circondariale. La prima era na­ta come una struttura “definitiva” con pene medio-lunghe. Sono istituti penitenziari con persone che scontano re­ati pesanti, ma che sono più gestibili, che hanno consapevolezza del proprio percorso. Il problema in Piemonte, e in Italia, riguarda le case circondariali».

Si tratta di strutture più fluide, diciamo.

«C’è più turn over, ci sono pene medio-brevi, diverse ti­pologie di detenuti, anche chi è in attesa di giudizio. In molti casi per uscire e per ri­manere fuori dal carcere bisogna avere delle risorse, una famiglia, una casa, un lavoro, dei contatti per un reinserimento. Tutte cose che gli stranieri spesso non hanno, ag­giungendo anche il problema della lingua e della cultura. In questo contesto risultano più facilmente spostabili altrove: non hanno legami, nessuno che viene ai colloqui. E così in alcuni istituti penitenziari, come ad Alessandria, Ivrea, Novara, Cuneo, la presenza degli stranieri aumenta in maniera esponenziale».

Il sistema di garanzia funziona per i detenuti?

«Il Piemonte ha un garante comunale per ogni città sede di carcere. Sono dodici, visto che Alessandria conta due istituti. Come organi di garanzia abbiamo diritto di visita ispettiva senza preventiva autorizzazione, oltre alla possibilità di fare colloqui personali riservati con tutti i detenuti. Poi ci sono le segnalazioni che ci possono arrivare tramite gli avvocati o gli operatori delle strutture, ma anche attraverso il sito del Consiglio regionale. Le persone detenute possono scriverci lettere o fare istanza di colloquio. La strada è ancora lunga, ma negli ultimi 20 anni da quando la Città di Roma e la Re­gione Lazio hanno istituito per primi la figura del Garante, le istituzioni locali hanno dimostrato una maggiore sensibilità e un’attenzione su questo tema».

Articolo a cura di Daniele Vaira