Uno sguardo veloce al suo profilo on line e salta subito agli occhi il Palmares. Cinque David di Donatello, due Nastri d’argento, tre Ciak d’oro e un Premio Ubu per il teatro. E forse non è tutto. Eppure Marina Confalone è un’artista appartata, lontana dai riflettori e poco disposta a cavalcare il mainstream, molto legata alla sua Napoli dove vive tuttora e dove volentieri torna tra una tournée e l’altra. Ma soprattutto dove debuttò giovanissima nella compagnia di Eduardo De Filippo, il battesimo con crisma di ogni napoletano che volesse fare teatro. Nonché il viatico giusto per il decollo. Nel corso della sua lunga carriera ha lavorato con i più grandi, del teatro e del cinema: Lina Wertmüller, Steno, Carlo Lizzani, Alberto Sordi, Nanni Loy, Gigi Proietti, Sergio Citti e più volte con Mario Monicelli. Ma fu anche molto amata da Federico Fellini che si dice pensò anche a lei per la parte che fu poi di Pina Bausch ne “La nave va”. In questa stagione è in scena con “Buonanotte, mamma!”, testo cult della drammaturgia americana scritto da Marsha Norman e vincitore del Premio Pulitzer nel 1983, reso celebre dalla versione cinematografica di Tom Moore con Sissy Spacek e Anne Bancroft.
Parliamo di questo testo, durissimo, dove lei interpreta la madre di una donna affetta da epilessia (qui interpretata da Mariangela D’Abbraccio) che con lucidità disarmante le partecipa il suo imminente progetto suicida.
«Un testo molto potente, scritto talmente bene che non ha bisogno di tante sottolineature. Io amo il teatro di contenuti, sempre più raro, dove si nutrono i sentimenti e non soltanto gli occhi, magari con scene e luci molto curate ma con meno sostanza».
Tra lei e Mariangela non corre una differenza anagrafica tale da giustificare il rapporto madre figlia. Non le ha pesato interpretare la madre di una donna di una decina di anni di meno?
«No, il teatro permette queste deroghe e nel testo è proprio indicato che tra le due ci fosse una differenza di soli quindici anni».
Ha pesato il confronto con la versione cinematografica?
«Lì il personaggio di Jessica, la figlia, era interpretato da Sissy Spacek, la deperita del cinema americano. Molto diversa da Mariangela che però è sempre alla ricerca di testi e personaggi forti e a questo teneva tantissimo. E così Francesco Tavassi, il regista».
Come vi siete trovate a lavorare insieme?
«Bene, forse anche perché abbiamo un approccio al personaggio completamente diverso: lei è molto solida, padrona della tecnica, io sono irrequieta e il rapporto lo devo giocare sera per sera, momento per momento, anche affidandomi alle reazioni del pubblico».
Ha faticato a restituire a questa donna, non propriamente un personaggio positivo, un’umanità che andasse oltre la manipolazione e la corruzione morale?
«Io sono dalla sua parte. È una donna che ha commesso degli errori, perlopiù involontari, ma il suo affetto materno è sincero. D’altra parte so che per arrivare alla tesi che la vuole colpevole ci sono state precedenti messe in scena che hanno eliminato delle battute. Io non lo trovo giusto».
Secondo lei cosa è cambiato oggi nel modo di affrontare un testo, non necessariamente un classico?
«Oggi non si fa più tavolino (il lavoro che dovrebbe precedere le prove in piedi, nda) e per me è diventata dura. I testi hanno tante sfaccettature e hanno bisogno di analisi. Questo approccio affrettato ha distrutto i personaggi e succede che sai dove e come muoverti ma non sai perché ti muovi».
Mi pare molto affascinata da personaggi bordeline. Ricordo “Misery non deve morire” dal romanzo di Stephen King e “La musica in fondo al mare”, sul linguaggio dei sordomuti, entrambi con Massimo Venturiello.
«Questo, soprattutto, sarebbe uno spettacolo da rifare e da portare per il mondo. Il linguaggio dei sordomuti è diverso in ogni parte del mondo ma quando i sordi capiscono come sono articolati i codici sono in grado di comunicare molto più in fretta di noi».
Restiamo in ambito bordeline e le chiedo di un monologo che vidi molti anni fa in cui muoveva soltanto la parte superiore del corpo: sembrava inchiodata a terra.
«Si intitola “Raccionepeccui”, un testo di Giuseppe Bertolucci che porto in scena dall’83, almeno una volta all’anno. La storia di una donna pazza di dolore dall’orfanatrofio all’insegnamento in una scuola di paese, l’emarginazione perché omosessuale, il primo amore, l’omicidio, la maternità, l’ospedale psichiatrico. Un testo che racconta la crudeltà e la depravazione dal quale Bertolucci avrebbe voluto girare un film dal titolo “Amore nero” ma a causa della durezza del tema non è stato possibile. Ne è nato così lo spettacolo più povero al mondo: un’attrice, una luce, brandelli di stoffa e l’afasia del linguaggio».
Nell’83 immagino che fece un certo scalpore, cosa comportò per lei?
«Cominciarono a chiamarmi per interpretare film d’autore. Prima ero percepita come attrice brutta che doveva servire come spalla di un comico per ironizzare sull’aspetto fisico».
Eppure è alta, magra e con un viso regolare.
«Io non mi sono mai sentita brutta ma ho capito che venivo percepita così e ho assecondato questa immagine. C’è una reputazione che circola su certi attori per cui non si guarda più con i propri occhi ma con gli occhi degli altri».
In ogni caso ha lavorato con i più grandi, tre volte con Mario Monicelli e persino con Fellini ne “La città delle donne”.
«Ecco, Fellini mi adorava. Diceva che ero come un’anfora che doveva fare tanti figli per creare una nuova razza».
Da attrice pluripremiata mi dica: quanto contano i premi nella carriera di un attore?
«Sono un bel biglietto da visita e all’inizio una gratificazione che mi inorgogliva e mi spronava. Ora, capendo meglio i criteri di assegnazione, mi importano meno».
E quali sono i nuovi criteri?
«La distribuzione più democratica, che secondo me non ha senso. Credo si debba votare chi ti piace di più indipendentemente dal fatto che abbia già vinto o meno. Lo sa che De Niro ha ricevuto una nomination come miglior attore non protagonista in “Killers of the flower moon”, il film di Scorsese con Leonardo Di Caprio?».
Lo ha visto?
«L’ho visto e lo suggerisco. Un film meraviglioso sullo sfruttamento degli indiani da parte dei bianchi. Tre ore e mezza».
Ha mai avuto la tentazione di gettare nel secchio il telecomando tv come fa la madre di “Buonanotte, mamma” per cercare di placare la figlia?
«Non ho nemmeno il tempo di avvicinarmi alla televisione adesso, ma nei miei progetti c’è il sogno di poter stare ore a guardare film sulle piattaforme. Magari tra tre o quattro anni».
Articolo a cura di Alessandra Bernocco