La storia la fanno i piccoli-grandi uomini con le loro modeste azioni quotidiane. La fanno i “peones”, le “pedine”, nella traduzione più letterale i braccianti agricoli dell’America centro meridionale, in quella più estesa, i militanti che, privi di cariche, esclusi dalle scelte, eseguono le decisioni altrui.
Si riteneva un “peones” Giulio Parusso, giornalista, storico e scrittore albese, fondatore dell’ufficio stampa del Comune di Alba che ha diretto per decenni, ideatore e direttore del Centro studi Beppe Fenoglio, anima della storia di Alba dal dopoguerra fino al 26 febbraio 2014, quando se n’è andato, o forse ancora oggi.
A dieci anni dalla sua morte, gli amici dell’Associazione culturale a lui intitolata, lo ricorderanno in un incontro pubblico, lunedì 26 febbraio alle 18, presso la sala convegni di Banca d’Alba, in via Cavour. L’evento, coordinato da Beppe Gobino e Roberto Ponzio, vedrà come testimoni a ripercorrerne le diverse anime: gli ultimi sindaci di Alba con i quali Parusso ha collaborato (Giuseppe Rossetto, Maurizio Marello e Carlo Bo); alcuni collaboratori dei suoi studi storici (Nando Vioglio ed Edoardo Borra); esponenti del Centro studi Beppe Fenoglio da lui fondato; la condirettrice di Gazzetta d’Alba, Maria Grazia Olivero, di cui fu collaboratore. Un modo per ricordare, sicuramente, ma anche per continuare a costruire partendo dalle radici e raccogliendo testimonianze inedite di chi con Parusso ha lavorato a stretto contatto o di chi, più semplicemente, vorrà condividerne un ricordo.
Abbiamo chiesto al noto penalista albese Roberto Ponzio di accompagnarci a comprendere lo spirito di questo appuntamento.
Partiamo dalla sua amicizia con Parusso…
«È un’amicizia nata sui banchi del Liceo classico di Alba. Ricordo Giulio, che aveva qualche anno più di me, presentatore del festival studentesco. Come avviene, dopo la maturità nel 1966, il nostro gruppo di classe si è allargato con gli amici degli amici. Ne facevano parte Gianguido Roggia, Beppe Gobino, Renzo Marengo e anche Parusso e Giovanni Cane. Avevamo alcune tradizioni consolidate. La prima: incontrarsi ogni anno il 31 dicembre. La seconda: fare un viaggio nelle capitali europee con le nostre rispettive consorti tra il Giovedì Santo e Pasquetta; per alcuni di noi era l’unica vacanza durante l’anno. Questi viaggi coinvolgevano in genere quattro coppie: i Parusso, i Cane, i Gobino e i Ponzio. A organizzare il tutto era Parusso, anche con itinerari differenziati in base agli interessi dei singoli. Così la nostra amicizia si è cementificata».
Perché “Peones”?
«Dopo la morte di Cane, avvenuta il 1° gennaio 2012, Parusso ha raccolto in un libro inedito, i “Peones raccontano 1967-2012”, come amavamo definirci, le nostre avventure tra amici chiosando che un’auto di otto ruote, nessuna di scorta, se ne perde una non è più la stessa. Ogni tanto la sera ne rileggo qualche pagina; quando morirò vorrei fosse tratto di lì il mio necrologio per l’autenticità delle parole; lì c’è davvero tutta la nostra vita, l’essenza di 45 anni di amicizia».
Non si affanni il lettore a cercare il volume, ne esistono solo otto copie, peraltro stampate fuori Alba per tutelarne la riservatezza, perché «contiene goliardate tra amici».
Ponzio non risparmia pennellate ironiche (che in vero gli abbiamo promesso di raccogliere a “microfoni spenti”), come la volta in cui, complici gli arredi di un locale orientale appena chiuso, trasformarono la casa di uno dei quattro (ovviamente a sua insaputa) facendogli credere che lì fosse stato aperto un ristorante cinese. O ancora, la volta in cui Parusso, tamponando inavvertitamente l’auto dell’Avvocato, scese per riscontrare i pochi danni e con il suo aplomb pronunciò una frase in dialetto la cui traduzione non letterale, ma, garantiamo, fedele, risulta più o meno così: «Se non altro sono l’unico che è riuscito a “fregare” il noto penalista Ponzio!».
Ci regala un suo ritratto di Parusso?
«Una persona a cui ero legato da stima reciproca, che ho apprezzato per l’amicizia, l’umiltà, la capacità di lavorare dietro le quinte; dotato di grande intelligenza e altrettanto humour, fatto per dare e seminare non per raccogliere. Non l’ho mai visto irato, anzi in tante situazioni ha fatto da cuscinetto. Aveva un grande spessore, credo che in vita sia stato sottovalutato. Abbiamo costituito un’Associazione in suo nome per ricordare le sue centinaia di articoli, gli oltre 30 libri scritti, i tanti studi, come quelli su Corneliano di cui è stato cittadino onorario e dove gli è stata intitolata una via. Stava lavorando a una storia del Mussotto, che gli sta intitolando la propria scuola, purtroppo non conclusa, e a tante altre opere inedite. Mi piace ricordare che il suo primo libro postumo è la biografia di mio papà: me l’aveva consegnata in bozza prima di morire, non sono riuscito, purtroppo, a commentarla insieme a lui».
Aveva un difetto?
«Quello che posso reputare tale è un eccesso di generosità. Perché non tutti sono riconoscenti. L’associazione a lui intitolata, seppur maiuscola per obiettivi, è minuscola nel numero di persone che la compongono, ma se dovessero associarsi solo tutti quelli che si sono laureati con la tesi scritta da Giulio riempiremmo sale. Senza pensare ai tanti discorsi predisposti per i politici, ai collegamenti istituzionali che ha tenuto, alle tante Fiere del tartufo organizzate e alla lungimiranza nell’ideare e fondare il centro studi Fenoglio: si trasfigurava quando ne parlava, tanto ne era coinvolto».
Lei e gli amici di Parusso avete fondato un’Associazione intitolata a lui. Quali gli obiettivi?
«In primis lasciare qualcosa alla storia di questa città: se non si rinfrescano i ricordi consegnandoli alle nuove generazioni si perdono pagine di storia. Penso all’opera di Parusso, ma anche a tante altre personalità nei campi della medicina, della giurisprudenza, del commercio o dell’edilizia. La memoria va alimentata. Abbiamo tante ambizioni, magari con qualche difficoltà a realizzarle: non abbiamo risorse economiche ma ci avvalliamo della collaborazione di tanti amici, come Ugo Nespolo o il banchiere Beppe Ghisolfi».
Qual è stata l’eredità più grande che ci ha lasciato Parusso?
«La storia di questa città perché ha dato un contributo notevole scrivendo di statuti, istituzioni, palio, fiera; notizie che senza lui sarebbero andate perse. Ci ha lasciato un libro che è la Bibbia di Alba, “Palazzo città”. Il rammarico è che la sua narrazione si fermi al 1975 e che non abbia potuto completarlo lasciandoci orfani di trent’anni di storia della città».