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«La vita ci dà indizi che spetta a noi non sottovalutare»

Ricordate la “luna nera”? Cloris Brosca era la zingara che leggeva i tarocchi in tv. Ma nella sua carriera di attrice ci sono grandi nomi, come Eduardo De Filippo: «Dopo quella parentesi non fu facile ripartire»

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La luna nera. Chi non la ricorda voltare la carta fatidica e pronunciare il verdetto, deliziosamente agghindata nelle spoglie della zingara nel salotto del piccolo schermo della tv nazionale? Era il 1994 e Cloris Brosca aveva già alle spalle la sua bella carriera. Iniziata con due giganti del teatro italiano che rispondono ai nomi di Orazio Costa, maestro d’Accademia che la diresse ne “Le allegre comari di Windsor” ed Eduardo De Filippo, di cui fu la figlia nella versione per la tv de “Il sindaco del rione Sanità”. Poi arrivò il cinema con un altro gigante che ci ha troppo presto lasciati, Massimo Troisi, che affidò a lei la parte di sua sorella Rosaria in “Rico­mincio da tre”; una doppietta con Giuseppe Tornatore (“Il camorrista” e “Stanno tutti bene”) e quindi la zingara più famosa della tv. Quella che ti metteva in guardia da sgradite sorprese o ti dava il via libera grazie ai tarocchi.

Cloris, ma lei ci crede, ai tarocchi?
«Credo alle coincidenze significative. La vita ci dà degli indizi, dei suggerimenti a cui bisogna fare attenzione. La frase di una canzone che in un dato momento ci suona in modo più chiaro, per esempio, può esserlo. Pensi a Filumena (la protagonista di “Filumena Marturano” di Eduardo De Filippo, nda) quando parla con la Madonna dei suoi problemi di prostituta incinta. Da un balcone, proprio in quel momento, una donna pronuncia la frase che sarà poi la battuta delle battute “I figli son figli e sono tutti uguali”».

Già, grande Eduardo. Gli dobbiamo anche la massima “essere superstiziosi è da ignoranti, ma non esserlo porta male”. Cosa ha rappresentato Eduardo De Filippo per lei?
«Il mio approccio con il teatro in età prescolare, da spettatrice, con mia madre che ha sempre portato me e mio fratello ad assistere alle sue commedie. Esordire con lui a diciannove anni è stato il coronamento di un sogno».

Il personaggio della zingara l’ha resa celebre al grande pubblico. Non si è mai sentita condizionata?
«Sicuramente ruoli così condizionano. Io non ho avuto la pazienza di traghettarlo verso il teatro e di utilizzare quel tesoretto di pubblico per veicolarlo verso le mie scelte successive. Tra quella fase e quella in cui ho ripreso a fare teatro in modo più consapevole e autonomo, scegliendo e scrivendo anche i miei testi, c’è stata una frattura».

Parliamo allora del suo recente spettacolo “La rosa non ci ama. Carlo Gesualdo vs Maria d’Avalos” diretto da Gianni De Feo, la storia vera di un delitto passionale tra due rampolli della nobiltà napoletana nella Napoli del 1590.
«Più che passionale si trattò di un delitto dettato da circostanze legate al prestigio della famiglia di Carlo, che era più giovane di lei di quattro anni, dedito alla musica e alla caccia, mentre Maria era una donna vissuta, con due matrimoni alle spalle e ancora tanta voglia di vivere. Un ragazzo di vent’anni non le bastava e quando si innamora di Fa­brizio, duca d’Andria, i due abbandonarono ogni prudenza».

E il ragazzo di vent’anni li fece fuori entrambi.
«Aizzato dallo zio Giulio. In realtà Carlo diffidò Fabrizio dal ritornare ma senza successo. Quello che Roberto Rus­so, autore di questo testo che si rifà a documenti d’epoca, ha voluto evidenziare, è che i due erano in realtà vittime delle dicerie della gente. La rosa del titolo è proprio la metafora della cerchia di persone che ruotano intorno alla vicenda, i petali maldicenti, veri responsabili del tragico epilogo».

Come si struttura lo spettacolo?
«La chiave è espressionistica e fa rivivere la drammaticità degli eventi evocando gli altri protagonisti attraverso i personaggi di Carlo e Maria. Due anime condannate che rivivono in un loop infernale il loro tormentato rapporto che viene messo in scena anche dando voce alle ombre di Giulio, delle serve, di Esco­bar».

Dopo Maria d’Avalos a chi darà voce Cloris?
«Sto proponendo una lettura spettacolo su Italo Calvino, un percorso attraverso l’opera e la vita di uno degli scrittori che amo di più. L’ho già portato a Dublino, all’Istituto culturale italiano, e a San­remo, la sua città. L’11 marzo invece sarò a Roma alla Biblioteca Nazionale, dov’è in corso una mostra dedicata che, in accordo con la figlia, ha ricostruito il suo studio».

Quale aspetto dell’opera calviniana l’affascina di più?
«Il fatto che la letteratura sia sempre morale, capace di trasmettere idee e valori senza appesantire lo scritto. Il rispetto per il lettore che passa attraverso il divertimento».

La famosa leggerezza di cui parla nelle “Lezioni americane”.
«La leggerezza fa proprio parte del suo modo di strutturare il racconto. E anche l’articolazione del pensiero attraverso la proposta di una tesi e quindi della tesi opposta in un alternarsi di visioni che vanno poi a comporre il quadro complessivo. Una contrapposizione quasi drammatica del pensiero che è molto teatrale e che ci lascia spettatori di quello che gli succede nella mente».

Il suo reading restituisce anche degli spaccati di vita. C’è qualcosa che il lettore potrebbe non conoscere ancora?
«La sua biografia è nota ma a me attrae il suo tratto sobrio, la misura, il fatto di avere preso posizione in modo netto ma senza strepito».

Per esempio?
«Si iscrisse al Pci nel ’43 e ne uscì nel ’57 con una pubblica lettera di dimissioni per i fatti di Ungheria. Conobbe Che Guevara. Volle sposarsi du­rante un viaggio all’Avana dove era tornato per conoscere gli amici dei genitori».

Che si erano trasferiti a Cuba dove Italo nacque due anni prima del loro rientro in Italia.
«Due scienziati di grande dirittura morale. L’impegno e la lotta nella Resistenza erano un valore di famiglia. Una curiosità? Il padre, agronomo, tenne delle lezioni sia in Messico sia a Cuba per emancipare i contadini e continuò in Italia e in Liguria dove faceva lezioni anche in dialetto. La madre invece, Eva Ma­meli, si laureò in matematica a 19 anni e in scienze naturali a 21 e fu la prima donna in Italia titolare di cattedra universitaria».

Chiudiamo tornando ai suoi esordi con un ricordo di Massimo Troisi.
«Dico questo: Troisi sapeva di avere un pubblico che amava la comicità e la scelta di fare “Il postino” che parla di poesia è stato un grande atto di coraggio oltreché il suo testamento spirituale. La poesia salva le persone e procede dalla vita alla morte. Era una persona fuori dal comune, con dei tratti inaspettati di timidezza».

A cura di Alessandra Bernocco