«Vi siete mai chiesti come mai accanto alla più grande acciaieria d’Europa non ci sia nemmeno una fabbrica di forchette?». La più grande acciaieria d’Europa è la nostra Ilva di Taranto, da una ventina d’anni oggetto di durissimo dibattito, tra licenziamenti, casse integrazione, denunce e condanne per disastro ecologico, sfruttamento, morti sul lavoro. Una situazione che coinvolge intere famiglie, divise tra la sopravvivenza garantita da un posto di lavoro e i rischi enormi che questo lavoro comporta. Di due mesi fa è l’uscita nelle sale di “Palazzina Laf”, un film di denuncia pluripremiato diretto da Michele Riondino che vede coinvolti molti attori pugliesi. Tra loro Michele Sinisi, artista poliedrico operativo in teatro anche come regista, che qui interpreta un informatico che si ritrova suo malgrado a far finta di lavorare in un’acciaieria. Ed è colui che rivolge la domanda (retorica) che ogni tarantino non può non rivolgersi. Perché questo mostro non ha creato un indotto di cui possa beneficiare la popolazione del luogo?
Michele, il film di Riondino si regge sul conflitto tra due mondi lontani: da una parte l’intoccabilità di un posto di lavoro e dall’altra i danni alla persona e al territorio. Lei da pugliese dove si colloca?
«Il film ha attraversato diverse fasi di scrittura e inizialmente il conflitto era ancora più esasperato. Il punto è che quando lo stabilimento venne inaugurato in queste zone non c’era niente e venne accolto come un fatto straordinario in una terra abbandonata. La stessa autostrada Bologna Taranto è stata realizzata in quell’occasione. Ma poi il prezzo che si è pagato per quei posti di lavoro è stato davvero troppo alto».
Si parla di quasi cinquecento morti premature in dieci anni e chi si permetteva di insorgere veniva licenziato.
«O rinchiuso nella Palazzina Laf, a fare niente o demansionato prima di essere licenziato. Adottarono la strategia del mobbing per far fuori il personale sindacalizzato. Un meccanismo, quello del mobbing, che prima non era mai stato portato in giudizio. Ora invece il termine mobbing viene usato anche quando si tratta di altro».
È stata dura la vita sul set?
«Quando si lavora con gente così brava ci si ricalibra! È come se un giocatore cambiasse squadra per andare nel Real Madrid: cambia modo di giocare».
Ha fatto cinema e televisione ma il teatro mi sembra essere il suo centro di gravità e sia come attore sia come regista affronta i classici come un territorio molto libero, non soltanto nell’interpretazione ma nella riscrittura.
«Sì ma io vado a toccare classici che già appartengono a una cultura trasversale, diffusa, già sottoposta a riscritture. La nostra fruizione, in termini non soltanto linguistici ma di contenuti, è già filtrata da interpretazioni successive, noi abbiamo assorbito delle sovrastrutture che spesso nemmeno riconosciamo come tali, delle quali non siamo sempre consapevoli».
Mi può fare un esempio?
«Quando ho messo in scena “Miseria e nobiltà” ho inserito la scena della lettera, presente nel film del ‘54 di Mario Mattoli, ma non nel testo originale di Scarpetta. Ho inserito la scena due volte, la prima facendo leggere la lettera di Benigni e Troisi in “Non ci resta che piangere”, la seconda quella di “Totò, Peppino e la… malafemmina”».
E il pubblico?
«Gli spettatori che conoscevano i film facevano l’eco agli attori».
E se invece qualcuno contestasse l’autenticità delle lettere? (nel film Felice Sciosciammocca la scrive per conto di un analfabeta e la indirizza al di lui nipote).
«Rispondo che la lettera nel testo non c’è e anche il film con Totò è già un’interpretazione».
Giusto. E sulla linea di un’assoluta libertà interpretativa ha affrontato testi monumento del teatro classico come “Amleto”, “Riccardo III”, “Edipo”. Tutti spettacoli che mettevano al centro il corpo, il suo, anche denudato.
«Guardi che io sono l’attore più bigotto che ci sia. Mi sono sposato in chiesa e ho tre figli, sono proprio fuori dai cliché, non sono da biennale».
Però in Edipo ci ha mostrato le sue grazie.
«”Edipo, il corpo tragico” era il titolo e il corpo senza difese era funzionale a un messaggio. In quel caso la tragedia non era nella struttura del testo ma era totalmente scritta sul corpo dell’attore, la cecità, la zoppia. Lo scenografo, Federico Biancalani, aveva il mio corpo come materia scenica».
Allora parliamo dei “Sei personaggi”, tuttora in tournée, dove Biancalani ha firmato una scenografia strepitosa. Un testo sostanzialmente scritto da lei con innesti pirandelliani autografi in cui il gioco del metateatro è spinto alle estreme conseguenze.
«Io avrei voluto intitolarlo “I sei personaggi di Luigi Pirandello” e mandarlo in giro così, senza ulteriori specificazioni, come uno strillo pubblicitario, tipo “È arrivato il circo” o “Fuori tutto”, proprio perché è un titolo che ormai fa parte della coscienza collettiva».
Invece l’hanno obbligata ad ammettere che il testo era suo, da Pirandello. Che però è più che presente nello spirito del gioco metateatrale.
«Infatti ho voluto aggiungere un ulteriore piano di rifrazione che è la mia presenza nello spettacolo, il regista di uno spettacolo in cui è già previsto un regista. La riflessione sulla destrutturazione dell’io è del secolo scorso e all’epoca questo testo funzionava per il pubblico come uno specchio. Ma oggi che si va dallo psicanalista come si va in palestra, l’altro da sé non fa più nessuno scalpore».
E allora?
«Allora bisogna ripulire quello specchio e procedere verso una rifrazione ulteriore. Ma credo sia uno spettacolo in cui si sente che quello che accade in scena è il risultato di un gioco leale che non risponde all’esigenza di essere perfetti e bravi. Ho cercato di arrivare con il massimo della finzione a dire il massimo della verità perché la finzione portata all’esasperazione diventa la cosa più vera».
È per questo che la scena è espressionistica all’ennesima potenza?
«Sì e il pubblico ha capito».
Io ho assistito alla replica in cui avete coinvolto direttamente una spettatrice chiamata a gridare dalla platea “Dio mio Dio mio”. Chi è lo spettatore ideale?
«Chi decide di divertirsi e godersi lo spettacolo. Il teatro è una grande occasione per vivere il senso di appartenenza e di comunità».
E il buon critico?
«Chi sa rendere chiaro un pensiero con semplicità di scrittura».
Il prossimo lavoro?
«”I masnadieri” di Schiller al Teatro Basilica di Roma. Credo che l’unica rivoluzione possibile sia nella poesia e la mia sfida sarà riuscire per un attimo a sospendere la tensione della vita quotidiana attraverso la bellezza della poesia schilleriana».
A cura di Alessandra Bernocco