Home Articoli Rivista Idea «Gli ultimi giorni un pezzo di vita da non sprecare»

«Gli ultimi giorni un pezzo di vita da non sprecare»

Mavi Oddero ci presenta “Ho cura”: «Siamo un’associazione che ad Alba si occupa di cure palliative. In questa società la malattia è sminuente e così chi si ammala resta solo. Ora ne parliamo anche ai giovani. Cercare il senso della morte è più importante che trovarlo»

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Maria Vittoria Oddero, presidente dell’associazione al­bese di volontari “Ho cura”, si occupa di cure palliative per i malati terminali. Il suo viaggio è una sfida quotidiana nel dolore e nella sua trasformazione in senso.

Iniziamo dall’inizio, quando è nata “Ho Cura?”
«Si tratta di un’associazione abbastanza giovane, nata nel 2015 per la volontà di alcune persone che per motivi personali o professionali, avevano vissuto esperienze particolarmente dolorose di fine vita dei loro cari e hanno deciso di realizzare, di spingere, di propugnare, di diffondere le cure palliative nel territorio di Alba, Bra, dell’Asl Cn2».

Di cosa vi occupate?
«Abbiamo due missioni specifiche: l’assistenza sanitaria e sociale a favore delle persone malate in fase avanzata o terminale di malattia, prevalentemente oncologica, nell’hospice di Bra, nel Cavs di Canale, dedicato alla lungodegenza, o al domicilio del pa­ziente. Abbiamo intenzione di finanziare le camere del sollievo all’ospedale di Verduno per i pazienti terminali che non possono essere trasferiti a Bra. Saranno realizzate a breve in un’area di Medicina interna».

Il vostro aiuto tocca anche le famiglie dei malati?
«L’assistenza riguarda anche i familiari perché non si soffre mai da soli, soffre il figlio, il marito, il bimbo piccolo della mamma giovane, la coppia di anziani ottantenni».

Avete anche un secondo obiettivo, diceva.

«La sensibilizzazione e la promozione culturale sul tema delle cure palliative. I pazienti devono sapere che ne hanno diritto e che esiste la legge 38 del 2010 che, nel nostro paese, regolamenta l’attuazione dell’assistenza al malato terminale».

Cosa si intende per cure palliative?
«Il pallio è un mantello che avvolge, che scalda, che assiste e le cure palliative vogliono essere un mantello di assistenza, non solo medica. Un insieme di cure multidisciplinari e multiprofessionali, in­terventi terapeutici, diagnostici e assistenziali, rivolti sia alla persona malata sia al suo nucleo familiare. Parliamo di patologie che non rispondono a trattamenti specifici».

Il dolore non è solo quello fisico.
«In alcuni casi i malati hanno bisogno di assistenza psicologica, spirituale o semplicemente di avere una persona accanto. Noi abbiamo gli strumenti per eliminare la sofferenza fisica, ma il grosso della sofferenza è psicologica, bisogna dare un senso alla propria morte e alla vita, ma c’è anche un dolore sociale».

Che è strettamente legato alla malattia.

«Nella nostra società è vista come un elemento sminuente anche del ruolo sociale e ciò porta solitudine e isolamento. Tanta gente non ti parla più, non ti viene più a trovare perché ha paura del tuo dolore, perché non ha mai riflettuto sulla sofferenza, sulla morte, che sono concetti che la nostra società ci co­stringe a tenere lontani. Quando si presenta di fronte il malato, il sofferente, il morente, lo evitiamo, lo isoliamo e aggiungiamo la solitudine ai motivi della sua sofferenza».

Nel vostro progetto sono fondamentali i volontari.

«Dal 2015 abbiamo istituito un corso specifico, secondo le direttive della Federazione Cure Palliative: 40 ore teoriche, suddivise in 20 settimane e 12 pratiche. Bisogna tutelare il malato, ma anche la persona che gli sta di fronte: per questo i volontari devono essere dichiarati idonei da uno psicoterapeuta. È un ruolo molto complicato, a differenza di altri contesti, non ci saranno mai miglioramenti del paziente. Senza contare che i periodi di sofferenza del malato possono durare diversi mesi. Il nostro corso è molto completo, interessante e stimolante, ma ogni anno porta pochi nuovi aiuti all’associazione».

Come è composta l’associazione?
«Siamo un centinaio di soci, ma la maggior parte sono quelli che ci sovvenzionano: una trentina sono i volontari che si prendono cura dei malati, non tutti se la sentono. Gli altri ci danno un aiuto secondo le loro competenze, come succede in qualsiasi organizzazione. C’è chi si occupa del lato amministrativo, chi della parte organizzativa, chi di programmare eventi per raccogliere fondi. Abbiamo sempre bisogno di energia, di volontari del fare e dello stare».

Oltretutto le vostre attività si stanno ampliando.

«Ci stiamo facendo conoscere nelle scuole e stiamo sensibilizzando i giovani su tematiche importanti e delicate. Grazie alla Consulta del Vo­lontariato e al Centro di servizi per il volontariato è nato un progetto con gli Istituti Cil­lario Ferrero ed Einaudi di Alba. Abbiamo riscontrato un grande interesse da parte degli studenti e un’intensità di pensiero che ci ha stupito positivamente. E poi abbiamo anche previsto varie attività diversionali».

Di cosa si tratta?
«Tecniche che partono dall’idea secondo la quale una modificazione dello stato psicologico può ripercuotersi positivamente su quello più propriamente organico, esercitando un’azione positiva sulla componente psicologica-mentale. Una nostra volontaria svolge un corso di scrittura terapeutica per le donne operate al seno, inoltre finanziamo la musicoterapia».

La morte è ancora un tabù?
«Nella nostra società non se ne parla, si tende a nasconderla. Nel passato c’era molta più consapevolezza: quando mo­riva un parente, lo si teneva in casa per giorni. Ora si cerca di evitare l’esperienza traumatica ai bambini, si racconta che il nonno è in cielo o che è andato a fare un lungo viaggio. Siamo tutti accomunati da un’esperienza di sofferenza, legata alla malattia o alla morte di una persona cara. Probabilmente bisogna aver fatto un percorso di consapevolezza, essersi interrogati, aver cercato delle risposte o un senso, è importante cercarlo, non trovarlo».

Quest’ultimo pezzo di vita ha un senso?
«Aiuta a rendere la vita più bella perché riduce la paura. E inoltre il fine vita è un pezzo di esistenza che una persona non dovrebbe perdersi. Per­ché magari in quel mese lì, in quella settimana, se è libera dal dolore, è possibile aggiustare le questioni economiche, andare da un parente, perdonarlo o essere perdonato. Può lasciare un suo scritto, un pensiero ai propri figli. C’è tempo per queste cose. C’è tempo per vivere quest’ultimo pezzo di vita, che la morte arrivi e ci trovi almeno vivi, non già morti dentro».

Articolo a cura di Daniele Vaira