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«Io assieme a Troisi negli ultimi istanti prima della fama»

Anna Pavignano ha ripercorso per noi la storia d’amore con l’attore napoletano: «Un grande scambio di pensieri ed esperienze. In “Ricomincio da tre” abbiamo messo tutta la nostra generazione»

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Racconta, Anna Pa­vi­gna­no, di aver conosciuto Massi­mo Troisi negli ul­timi istanti prima che diventasse famoso. Gli ultimi attimi di normalità prima della notorietà. Prima, insomma, che cambiasse la percezione del pubblico su di lui. I tempi erano quelli di “Non Stop”, varietà televisivo realizzato negli studi Rai di Torino tra il 1977 e il 1978 che rivoluzionò il mondo della commedia e della comicità nazionale. Trasmissione di rottura, senza sigle né presentatori il cui flusso e lo scambio tra attori sulla scena e il pubblico di giovani comparse era continuo. Un palco che lanciò attori di talento come Carlo Verdone ma anche, e appunto, Massimo Troisi, Lello Are­na, Enzo Decaro. Quelli de “La Smorfia”. La 23esima edizione del Glocal Film Festival ideato da Alessandro Gaido e Piemonte Movie ha voluto, in collaborazione con Rai Teche – Mediateca Villani, rendere omaggio a quel periodo storico della televisione italiana dedicandogli l’apertura del Festival – che quest’anno, uscendo dai confini torinesi, ha toccato anche Mondovì – in occasione dei 30 anni dalla scomparsa del grande attore e regista campano. Un viaggio nella memoria, tra proiezioni e testimonianze andato in scena il 18 marzo e che ha visto la proiezione all’interno di Archive Alive del documentario “Massimo, il mio cinema secondo me” di Raf­faele Verzillo (2013) e gli in­terventi di Bruno Voglino, scopritore di talenti, Bruno Gambarotta e Anna Pavi­gnano, sceneggiatrice e scrittrice. È su quel set che Anna Pavignano, studentessa di psi­cologia nata a Borgo­ma­nero, nel ’77 conosce Mas­simo Troisi. Tra i due nasce un sodalizio sentimentale e artistico che sfociò nella scrittura delle sceneggiature di “Ricomincio da tre” (1981), “Scusate il ritardo” (1983), “Le vie del Signore sono finite (1987), “Pensavo fosse amo­re… invece era un calesse” (1991) fino ad arrivare a “Il postino” (1994). L’ultimo film di Troisi prima della prematura scomparsa.

Anna, cosa ricorda di quei tempi?
«A “Non Stop” io facevo la comparsa, lui era al suo esordio televisivo con La Smorfia. La trasmissione era organizzata in modo che tutti quanti stessero sempre insieme e penso sempre di aver conosciuto Massimo negli ultimi momenti prima che diventasse famoso, come un ragazzo napoletano che sta a Torino con i suoi amici e io ero una ragazza torinese. Ci siamo co­nosciuti così, senza avere dentro quell’elemento del suc­cesso che per lui non è stato determinante per il cambiamento, ma per tutti sicuramente porta un minimo di cambiamento. Da lì è cominciata una collaborazione pri­ma umana, l’innamoramento, che ci ha portato a vivere una storia molto bella, molto im­portante, in cui c’è stato un grande scambio di pensieri, di esperienze, di cose che avevamo in comune nonostante Napoli e Torino. Però è vero che le persone si incontrano non sugli aspetti culturali, ma su quelli interiori anche sulle nostre diversità che si sono in­tegrate. Magari io posso aver portato all’interno di questo rapporto una maggior attenzione per i particolari, lui ha colorato la mia vita an­che se la prima immagine che ho di lui è di un ragazzo in calzamaglia nera, con i capelli neri e solo il fiocchettino».

È stato un periodo molto in­tenso?
«Ricordo quegli anni come an­ni molto intensi, di gran di­vertimento. Dopo “Non Stop” ho cominciato a seguire il gruppo de La Smorfia. Vi­vevamo di continui spostamenti, la nostra quotidianità era fatta di alberghi, però quando stavamo insieme era come se ci sentissimo sempre a casa. Dopo il successo televisivo sono arrivate varie proposte per fare film, ma Mas­simo non riusciva mai a trovare un copione o una situazione che lo convincesse an­che perché aveva comunque bisogno di sentirsi circondato dagli amici, dalle persone di cui si fidava. Poi Mauro Be­rardi (produttore cinematografico, ndr) ha avuto l’intuizione di lasciargli carta bianca dicendogli: “Scrivi la storia che vuoi”. Noi avevamo il nostro bagaglio di discorsi, di pensieri, di battute e quando è venuta l’occasione di fare un film (“Ricomincio da tre”) ci abbiamo messo dentro tutto quello che a quei tempi ci sembrava di poter raccontare, ciò che noi eravamo. Quan­do lo abbiamo fatto “Ricomincio da tre” ci sembrava un film generazionale, invece poi si è visto che certe tematiche an­davano al di là della nostra generazione. Cre­de­va­mo che parlare della coppia, della pa­ternità non certa, di un certo modo di emigrare non per bi­sogno ma per necessità, fossero cose che nel corso del tem­po sarebbero state superate. E invece in qualche modo an­che la nostra storia umana per­corre delle strade analoghe, che qualunque sia il secolo in cui viviamo le generazioni fanno quel percorso lì».

Eravate giovanissimi quando vi è stata data “carta bianca”, oggi non è più così…
«Io avevo 22 anni, lui ne aveva 24. La differenza sta nella maturità con cui si af­frontano le cose. Noi ci sentivamo molto adulti, non ci sem­brava strano. Poi, dopo, prendendo la giusta distanza, uno dice “mamma mia”. Però è anche vero che probabilmente non rendendocene conto, né io né lui abbiamo sfruttato pienamente quello che ci stava succedendo. C’è una frase emblematica in “Scusate il ritardo” in cui la madre dice “Tu la vita la devi prendere come viene, non co­me va” e Massimo risponde “Io la prendo come viene, so­lo che a me viene sempre una chiavica…”».

Secondo lei cosa resta dell’eredità di Massimo Troisi?
«Penso che l’eredità stia nella sua comicità che è in qualche modo unica, e nella capacità di questa comicità di comunicare. Ecco, il suo è un raro esempio di grande comunicazione. Vedere dopo tanti anni che il suo ricordo, la sua presenza aumenta anziché diminuire significa che c’è qualcosa di non troppo spiegabile, fatto dal suo carisma, le sue scelte, tante cose messe insieme che hanno fatto di lui un esempio e una fonte di ispirazione. Non tanto nel cinema, perché storie sui rapporti ce n’erano prima e ce ne sono dopo, ma per la vita di tante persone. Tanti giovani mi scrivono dicendo che la loro vita è stata condizionata da questo o quel film, e devo dire anche dal mio libro “Da domani mi alzo tardi”. Per me è una grande soddisfazione perché in qualche modo poteva essere un ulteriore film che avremmo potuto fare insieme. Questa è l’eredità: non qualcosa che qualcuno in particolare raccoglie, ma patrimonio di tutti».

Articolo a cura di Erika Nicchiosini